“A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai...”. Ah, canzoncina che entri nelle teste delle persone, la canticchio involontariamente tra me e me, come quei motivetti brutti che però non ti abbandonano mai, come le più sceme canzoni di Sanremo che ti ritrovi involontariamente a fischiettare...
La canto alla mia nipotina, mio malgrado, perchè a lei piace tanto, sono bravi a fare gli spot, motivetti semplici, immagini di bimbi allegri, atmosfere familiari.
Ma mi domando, CHI a Natale può fare quello che non può fare mai?
Quelli che possono a Natale, immagino che possano anche tutto il resto dell’anno, non è che a Natale improvvisamente ricevono i superpoteri, o vincono il superenalotto, o vengono illuminati improvvisamente se prima erano stupidi, etc.etc.
A Natale si può fare di più... malgrado la crisi nella mia città c’è la solita illuminazione natalizia (per fortuna almeno hanno omesso i cristalli swarovski degli ultimi anni e gli angioletti finta imitazione del Serpotta, povero Serpotta! ). C’è un grande albero un po’ sbilenco, lo ammetto, che di giorno è bruttino forte, ma di notte migliora con l’effetto delle lucine, ci sono gli archi (luminarie), ci sono le stelle di Natale. I turisti, saranno lieti di vedere tutte queste lucine mentre faranno slalom tra l’immondizia. A Natale si può fare di più...
A Natale si può fare di più... nella mia città c’è un traffico da paura, ci sono le targhe alterne ma non servono a niente, perchè comunque stanno tagliando molte linee di autobus, quindi alla fine tutti usano l’auto sfidando la sorte e le multe. I negozi sono pieni di gente (ma pochi comprano), sono andata in una grande libreria che hanno aperto al centro, volevo fare i cosiddetti regali intelligenti, che poi sono simili alle vacanze intelligenti, tutti hanno la stessa idea ed alla fine ti trovi nei guai. Ad accoglierti c’era la security, con tanto di cuffiette, giubbottini antiproiettili, etc, nemmeno fosse una gioielleria, ma forse con i tempi che corrono... Una folla impressionante, pensavo che l’editoria fosse in crisi, per fortuna non è così, ma forse è solo perchè è Natale. La fila alla cassa è interminabile, posiamo i libri e fuggiamo via, la libreria in stile supermarket del libro e molto alla moda, non era per niente un’ idea intelligente.
A Natale si può fare di più, c’è chi prepara pranzi succulenti. C’è chi è contento di mantenere le tradizioni e chi si stressa e non vede l’ora che tutto sia passato. C’è chi deve farsi i conti per poter fare la spesa e chi per fare i regali, che poi al 90 per cento sono le solite chincaglierie da riporre nel cassetto o i regali utili tipo pantofole, pigiami, vestaglie. C’è chi coglie l’occasione per far pace con i parenti e chi per litigare, perchè “se a quello non lo invito si offende, ma se lo invito ci litighiamo...” etc etc.
A Natale si può fare di più. Un pensiero agli abitanti dell’Abruzzo che passeranno il Natale negli alberghi o nei containers, perchè non è vero che tutti hanno la casa. Un pensiero agli immigrati che per esistere hanno bisogno di un permesso e se poi esistono sono il capro espiatorio di tutti i problemi della società. Un pensiero agli operai che si trovano sui tetti e senza un futuro (come quelli della FIAT così vicini a Palermo). Un pensiero a tutti gli invisibili che anche a Natale continueranno a dormire sulle panchine dei parchi. Un pensiero a tutti i deboli del mondo.
Ma forse è vero “A Natale si può fare quello che non si può fare mai”... forse è possibile aprire gli occhi.
Auguro un felice Natale a tutti i nostri lettori, vorrei tanto andare a salutare tutti gli amici blogger, ma visto che non so se riuscirò a farlo in tempo, intanto un caloroso abbraccio Buon Natale!
giovedì 24 dicembre 2009
lunedì 14 dicembre 2009
Le arancine
Per Santa Lucia, come ho già scritto l’anno scorso, a Palermo si mangiano le arancine, niente pane o pasta, è proprio un grosso sacrificio mangiare le mitiche arance di riso con ragù e fritte, una sofferenza alla quale bisogna sottoporsi...
Scherzi a parte io amo molto questa festa perchè ho la giustificazione ed anche la “benedizione” per mangiare ciò che forse rappresenta il mio cibo prediletto, a cui di solito rinuncio per motivi di linea e per non accanirmi troppo sul mio stomaco, già riempito da varie leccornie, con ulteriori fritture.
Ieri ho quindi mangiato le mie adorate arancine, quelle fatte in casa da mia madre, ho però dovuto constatare che gli anni passano e la mia capacità di divorare cibo è diminuita, se fino a qualche anno fa il mio personale record era di 8 arancine (solo a cena), adesso alla quarta (e ora mia madre le fa di minore dimensione) cominciavo già a boccheggiare e la quinta l’ho mangiata solo per forza di volontà e per gola perchè già ero colma, non del tutto direi, perchè poco dopo ho riempito l’ultimo spazio rimasto con la cuccìa con ricotta. Insomma, gli anni passano e mi devo rassegnare, il mio record rimarrà, e forse è un bene, irraggiungibile.
Le arancine prendono il loro nome dalle arance, alle quali somigliano, si trovano in tutte le rosticcerie palermitane fin dal mattino e rappresentano uno tra i prediletti snack o la base per una buona e soprattutto nutriente prima colazione. In casa vengono preparate di rado, esclusivamente per il giorno dedicato a Santa Lucia, se si ha la pazienza per farle.
Una prima nota da segnalare è quella relativa al loro nome, è più usuale infatti conoscerle sotto il nome di arancini (singolare arancino), declinate quindi al maschile, questo soprattutto grazie alla fama dello scrittore siciliano Camilleri, che le ha rese celebri nel romanzo “Gli arancini di Montalbano”. Quella del nome è una disputa che ha visto fior fiore di studiosi delle tradizioni siciliane dibattere tra loro, “quale sarà il vero nome, arancina o arancino?”. La disputa divide in due la mia bella isola, a Palermo la chiamiamo arancina, nella Sicilia orientale si chiama arancino. Non so, nessuno può dare una risposta vera alla grande questione del secolo, io però, per abitudine (sono palermitana, pur aliena ma sempre palermitana) e per femminismo, preferisco nominarla arancina, al femminile, Camilleri mi perdonerà.
Le origini dell’arancina sono da attribuire agli arabi, che a leggere il mio blog, sembra non abbiano fatto altro nella vita che dedicarsi all’arte culinaria. Furono infatti gli arabi ad introdurre il riso e lo zafferano, elementi basilari di questi goduriosi timballi fritti. Gli arabi probabilmente mangiavano il riso condito con zafferano e carne (insomma il risotto alla milanese) sotto forma di timballo, ma coloro che inventarono la panatura e la frittura, furono i cuochi di Federico II, per rendere più piacevoli e agevoli i pic-nic dell’Imperatore durante le battute di caccia.
Nel passato le arancine a Palermo venivano vendute dagli ambulanti. Oltre alle classiche con carne (con il ripieno di ragù) e al burro (dove il burro non c’è affatto), c’era anche la versione con ripieno di gianduia, da intingere nello zucchero, per pubblicizzarle gli ambulanti usavano dire: “abbagna e mancia!” (intingi nello zucchero e mangiale). Gli anziani, abituati a questa attività, sono soliti mangiare tuttora le arancine, anche quelle con ragù, “bagnandole” nello zucchero, io non ho mai provato e non penso di farlo, vero è l’accostamento armonico del dolce a salato, la filosofia dei due opposti che si incontrano, ma questo mi sembra troppo!
A Palermo le versioni classiche di arancine, si trovano ovunque, ottime quelle di Ganci e di Oscar, in qualche rosticceria si trovano anche le varianti con diversi ingredienti, quelle col gianduia io non le ho mai trovate. E’ da segnalare il bar Touring in Via Lincoln, dove preparano le arancine-bomba, dove il termine bomba è per una volta positivo e si riferisce alla dimensione quasi raddoppiata, rispetto al normale.
Adesso posso finalmente trascrivere la ricetta delle arancine “ca carni” (al ragù di carne) e “cu burru” (con besciamella, prosciutto e scamorza).
ARANCINE CA CARNI:
Ingredienti per 46 arancine (come si può vedere le quantità sono...notevoli, da palermitani doc)
per il riso: 2kg riso qualità Roma, 4 litri di acqua, 4 dadi, 2 bustine di zafferano, parmigiano, burro per mantecare, noce moscata, sale, pepe
per il ragù: 1 kg di tritato (che qui chiamiamo carni capuliata), 1 cipolla, sedano, 2 foglie di alloro, 1 carota, olio evo, mezzo bicchiere di vino, 1 bottiglia (da 750ml) e mezza di salsa di pomodoro, 300gr di pisellini fini surgelati, sale, pepe, noce moscata.
Preparazione:
Risotto (da preparare il giorno prima della preparazione delle arancine): è conveniente dimezzare le dosi e prepararlo in due volte, perchè mescolare 2 kg di riso può essere faticoso. Far bollire l’acqua, aggiungere i dadi e la bustina di zafferano. Versare il riso e mescolare costantemente come per fare il risotto. Dopo circa 15 minuti l’acqua si sarà asciugata. Spegnere il fuoco, aggiungere qualche cucchiaio di parmigiano, correggere di sale (se necessario), aggiungere pepe e noce moscata e mantecare. A questo punto versare il risotto su una teglia per farlo raffreddare e poi coprirlo per non farlo seccare.
Ragù (anche questo si può preparare il giorno prima): tritare finemente la cipolla, il sedano e la carota. Far soffriggere e aggiungere il tritato, quando è ben rosolato versare il vino e far evaporare. Aggiungere la salsa di pomodoro, sale pepe e noce moscata e far cucinare a fuoco moderato per circa un’ora. Dieci minuti prima della fine della cottura aggiungere i pisellini.
Arancine: conformare con il riso delle palline (ne verranno circa 45) .
Preparare a parte una pastella con acqua e farina, e mettere in un contenitore il pangrattato. Dividere ogni pallina in due parti, mettere una metà nel palmo di una mano e fare un incavo, aggiungere un cucchiaio circa di ragù e chiudere con l’altra metà, appallottolare bene in modo che non fuoriesca il condimento, bagnare l’arancina nella pastella e poi impanarla col pangrattato.
Prepararle tutte
e poi friggerle nella friggitrice o in una pentola con olio di semi.
ARANCINE CU BURRU:
Per 16 arancine, fare un risotto come sopra con 700gr di riso. Per il ripieno servono 60gr di prosciutto cotto, 60gr di scamorza (tagliata a piccoli pezzi) e una besciamella classica fatta con 250ml di latte. Quando la Besciamella è fredda, si aggiungeranno prosciutto e scamorza.
In questo caso la forma da dare alle arancine è ovale, per il resto bisogna seguire lo stesso procedimento.
A questo punto non resta che dire Buon appetito!
p.s. un grazie a Emilia Merenda (mia madre) per le foto e la ricetta
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sabato 12 dicembre 2009
DIARIO DEGLI ULTIMI GIORNI. Caldo, freddo, un arresto, la Madonna, il Bingo, gioie e delusioni, un incantesimo spezzato.
Questi ultimi giorni sono stati intensi, quando si lavora i ritmi di vita cambiano ed il tempo scorre senza che nemmeno ci si renda conto di questo. C’è stato il sole tiepido e la pioggia battente, il freddo alternato alle giornate primaverili. E’ passata senza che me ne accorgessi la giornata dedicata alla Madonna, festa molto amata dai palermitani che la celebrano mangiando lo sfincionello e aprendo il ciclo di serate dedicate al gioco delle carte, che si concluderà solo con l’epifania. Io non me ne sono nemmeno accorta, niente sfincione e niente carte, per il primo mi dispiace, la seconda cosa è per me una tortura alla quale faccio di tutto per astenermi.
Quando cominciano le feste natalizie, tutti sentono forte il fuoco del gioco, anche chi non tocca un mazzo di carte per tutto l’anno, improvvisamente ha voglia di sette e mezzo, cucù, mercante in fiera, mentre io cerco di nascondermi ed inventare scuse, sarà perchè quelle rare volte che gioco, perdo (e per fortuna si gioca con i centesimi), sarà che l’interruzione di undici mesi mi fa dimenticare tutte le regole, anche quelle più sceme e semplici, sarà che fosse per me potrebbero non esistere lotti e superenalotti, per non parlare dei tanti Bingo così iperfrequentati a Palermo, dove io non sono mai entrata, anzi, l’ho fatto una volta sola. Era per un colloquio di lavoro (super ambito) tanti anni fa. Era una sala Bingo (ora non esiste più) che fino ad allora era stata una sala ricevimenti in una sorta di collinetta vicina alla città. Se qualcuno volesse farmi un colloquio di lavoro, non dovrebbe mai fare ciò che fece l’uomo in questione: primo propormi di fare un corso per modella (per imparare a camminare e muovermi in un certo modo), già che il termine modella mi faceva ridere visto che supero di poco i 150 cm di altezza, oltre tutto per portare le bibite alla gente famelica di vincite, non credo serva. Secondo propormi di mettere la mia paga giornaliera in un borsello dal quale attingere per dare il resto ai clienti tra una giocata e l’altra, ovvero pochi secondi, ogni ammanco (cosa probabilissima) sarebbe stato detratto dalla paga. Terzo avere lo sguardo viscido. Quarto proportmi l'uso obbligatorio della minigonna e tacchi alti. Insomma l’uomo mi assunse ed io gli risposi che non mi avrebbe più vista, così finì la mia mai iniziata esperienza nel mondo del Bingo.
Digressioni a parte, questa settimana mi sono persa un bel po’ di cose. Un giorno, mentre facevo il riposino pomeridiano, dopo un’intensa mattinata di lavoro c’è stato un celebre arresto a cento metri da casa mia. Ho sentito le sirene, il rumore degli elicotteri, ma nemmeno questo mi ha fatto mollare il letto ed il mio relax, forse ci si abitua a tutto. Al mio risveglio, vado subito su internet, perchè da quando abito al centro di Palermo, vicino al Tribunale, so che quei rumori hanno di certo un significato, per di più in un giorno particolare come quello, qualcosa di importante doveva essere accaduto, ed infatti leggo la notizia, inquietante direi.
Questa settimana grandi gioie e qualche delusione lavorativa. Ospiti meravigliosi, una coppia ha avuto un bambino, e poi abbiamo conosciuto due persone fantastiche, speciali con le quali le chiacchierate sono state piacevoli, istruttive, emozionanti, un incontro bellissimo, Palermo e Milano così lontane e mai tanto vicine. E’ bello questo lavoro, altro che Bingo...
Ogni tanto però anche qui qualche delusione. Non amo l’attesa, è l’unica cosa che non mi piace in questo lavoro, preferisco anche stirare, ma attendere no, sarà che sono molto puntuale, anzi troppo, poi in certo casi l’attesa diventa infinita. Quando un mese prima ti prenotano le due camere (le uniche due che abbiamo) per 10 giorni, vorresti festeggiare per tutto il mese, soprattutto dopo che non si è lavorato per tanto tempo. Sei così felice e la telefonata è stata così cordiale che non chiedi nemmeno un anticipo, è pure vero che è una nostra consuetudine, si siamo fissati sulla fiducia, chiediamo solo un preavviso in tempo utile e fregature ne abbiamo prese pochissime.
Prenotano delle persone che lavoreranno in un teatro vicino casa, che bello, ci piace il teatro, sarà interessante ospitare gente che contribuisce con il proprio lavoro ad uno spettacolo. Li aspettiamo per pranzo, l’attesa. Sono le tre e mezza del pomeriggio, non vorremmo essere insistenti chiamandoli, ma siamo pure rimasti digiuni. Telefoniamo. La gentile signora ci dice che lei si trova a Venezia, la produzione ha cambiato i programmi, da noi arriveranno altre due persone, chiede se ci hanno già contattati. Rimaniamo esterrefatti, chiediamo un recapito al quale chiamare noi, ci dicono che ci richiameranno loro a breve, ma che gli altri arriveranno sicuramente. Attesa e dubbi. Sono le 20.00 e richiamiamo la gentile signora. Cellulare staccato, fino alle 22.30. Attesa e forti dubbi. Ore 1.00 ci corichiamo, l’attesa è finita, nessuno è arrivato. Stamattina la signora non ci risponde più, che bello, gli inconvenienti del mestiere...
L’attesa è servita a qualcosa, a parte una maratona di puntate di Lost, ho deciso di fare una pizza-sfincione in casa. Io con gli impasti sono una frana, mi viene durissima anche la pizza col pane impasta comprato, ma questa volta ho seguito bene le istruzioni che avevo per scrivere qui un post con la ricetta dello sfincione per la Madonna (cosa che non ho ancora fatto), quello di mio nonno. Non avendo però gli ingredienti per il condimento dello sfincione, l’ho condito come una specie di pizza. L’incantesimo è stato rotto, era sofficissimo ed anche buono!
Al prossimo post, la ricetta ed alcune note sullo sfincione!
Quando cominciano le feste natalizie, tutti sentono forte il fuoco del gioco, anche chi non tocca un mazzo di carte per tutto l’anno, improvvisamente ha voglia di sette e mezzo, cucù, mercante in fiera, mentre io cerco di nascondermi ed inventare scuse, sarà perchè quelle rare volte che gioco, perdo (e per fortuna si gioca con i centesimi), sarà che l’interruzione di undici mesi mi fa dimenticare tutte le regole, anche quelle più sceme e semplici, sarà che fosse per me potrebbero non esistere lotti e superenalotti, per non parlare dei tanti Bingo così iperfrequentati a Palermo, dove io non sono mai entrata, anzi, l’ho fatto una volta sola. Era per un colloquio di lavoro (super ambito) tanti anni fa. Era una sala Bingo (ora non esiste più) che fino ad allora era stata una sala ricevimenti in una sorta di collinetta vicina alla città. Se qualcuno volesse farmi un colloquio di lavoro, non dovrebbe mai fare ciò che fece l’uomo in questione: primo propormi di fare un corso per modella (per imparare a camminare e muovermi in un certo modo), già che il termine modella mi faceva ridere visto che supero di poco i 150 cm di altezza, oltre tutto per portare le bibite alla gente famelica di vincite, non credo serva. Secondo propormi di mettere la mia paga giornaliera in un borsello dal quale attingere per dare il resto ai clienti tra una giocata e l’altra, ovvero pochi secondi, ogni ammanco (cosa probabilissima) sarebbe stato detratto dalla paga. Terzo avere lo sguardo viscido. Quarto proportmi l'uso obbligatorio della minigonna e tacchi alti. Insomma l’uomo mi assunse ed io gli risposi che non mi avrebbe più vista, così finì la mia mai iniziata esperienza nel mondo del Bingo.
Digressioni a parte, questa settimana mi sono persa un bel po’ di cose. Un giorno, mentre facevo il riposino pomeridiano, dopo un’intensa mattinata di lavoro c’è stato un celebre arresto a cento metri da casa mia. Ho sentito le sirene, il rumore degli elicotteri, ma nemmeno questo mi ha fatto mollare il letto ed il mio relax, forse ci si abitua a tutto. Al mio risveglio, vado subito su internet, perchè da quando abito al centro di Palermo, vicino al Tribunale, so che quei rumori hanno di certo un significato, per di più in un giorno particolare come quello, qualcosa di importante doveva essere accaduto, ed infatti leggo la notizia, inquietante direi.
Questa settimana grandi gioie e qualche delusione lavorativa. Ospiti meravigliosi, una coppia ha avuto un bambino, e poi abbiamo conosciuto due persone fantastiche, speciali con le quali le chiacchierate sono state piacevoli, istruttive, emozionanti, un incontro bellissimo, Palermo e Milano così lontane e mai tanto vicine. E’ bello questo lavoro, altro che Bingo...
Ogni tanto però anche qui qualche delusione. Non amo l’attesa, è l’unica cosa che non mi piace in questo lavoro, preferisco anche stirare, ma attendere no, sarà che sono molto puntuale, anzi troppo, poi in certo casi l’attesa diventa infinita. Quando un mese prima ti prenotano le due camere (le uniche due che abbiamo) per 10 giorni, vorresti festeggiare per tutto il mese, soprattutto dopo che non si è lavorato per tanto tempo. Sei così felice e la telefonata è stata così cordiale che non chiedi nemmeno un anticipo, è pure vero che è una nostra consuetudine, si siamo fissati sulla fiducia, chiediamo solo un preavviso in tempo utile e fregature ne abbiamo prese pochissime.
Prenotano delle persone che lavoreranno in un teatro vicino casa, che bello, ci piace il teatro, sarà interessante ospitare gente che contribuisce con il proprio lavoro ad uno spettacolo. Li aspettiamo per pranzo, l’attesa. Sono le tre e mezza del pomeriggio, non vorremmo essere insistenti chiamandoli, ma siamo pure rimasti digiuni. Telefoniamo. La gentile signora ci dice che lei si trova a Venezia, la produzione ha cambiato i programmi, da noi arriveranno altre due persone, chiede se ci hanno già contattati. Rimaniamo esterrefatti, chiediamo un recapito al quale chiamare noi, ci dicono che ci richiameranno loro a breve, ma che gli altri arriveranno sicuramente. Attesa e dubbi. Sono le 20.00 e richiamiamo la gentile signora. Cellulare staccato, fino alle 22.30. Attesa e forti dubbi. Ore 1.00 ci corichiamo, l’attesa è finita, nessuno è arrivato. Stamattina la signora non ci risponde più, che bello, gli inconvenienti del mestiere...
L’attesa è servita a qualcosa, a parte una maratona di puntate di Lost, ho deciso di fare una pizza-sfincione in casa. Io con gli impasti sono una frana, mi viene durissima anche la pizza col pane impasta comprato, ma questa volta ho seguito bene le istruzioni che avevo per scrivere qui un post con la ricetta dello sfincione per la Madonna (cosa che non ho ancora fatto), quello di mio nonno. Non avendo però gli ingredienti per il condimento dello sfincione, l’ho condito come una specie di pizza. L’incantesimo è stato rotto, era sofficissimo ed anche buono!
Al prossimo post, la ricetta ed alcune note sullo sfincione!
mercoledì 2 dicembre 2009
Statistiche. Come un' auto parcheggiata può diventare una panella.
Si può essere scelti uno su qualche centinaia per un bel premio in palio? Secondo le statistiche quante possibilità ci sono di vincere al super enalotto? Si può ricevere una telefonata che ti dice: “abbiamo scelto lei per assegnarle un viaggio omaggio” senza che si debba andare nel solito albergo ad acquistare pentole, coperte etc?
Oppure quante possibilità ci sono che un tizio sconosciuto, di notte, in una strada tutta piena di auto parcheggiate “scelga” di puntarne tre e la tua sia quella che sta nel centro? Quanti punti ha vinto??? E noi?
Torniamo indietro. Sta mattina sono sola a casa, Massimo ha una riunione, c’è da lottare per il nuovo lavoro, bè la precarietà, si sa... Gli ospiti sono andati via presto, non hanno nemmeno voluto la colazione. Ed allora c’è una palermitana aliena doc che finiti i suoi rapidi lavori di casa (b&b), dopo aver girovagato un po’ per i blog, decide di fare una passeggiata rinfrancante, però pioviggina, ma che sarà mai? Acquista il suo solito Fatto Quotidiano, la cipria (oltre la mente va curato anche il corpo, in questo caso la faccia), tre ottimi panini dal fornaio preferito (anche lo stomaco vuole la sua parte). L’aliena torna a casa e decide di cucinare carne al sugo, scongela la carne e si accorge di non avere salsa di pomodoro, cavolo c’è sempre in casa... alternative, carne in brodo? Nooo tanto meglio col sugo, ho una fame... E’ già quasi ora di pranzo, ma per fortuna c’è il nostro fruttivendolo sotto casa che vende di tutto, ed allora via di corsa, la salsa mi aspetta!
Dialogo con il fruttivendolo:
Palermitana aliena doc: ciao, hai forse della salsa di pomodoro?
Paolo il fruttivendolo: ciao, questa, questa o questa?
P. a. d.: questa (la più economica è sempre più cara di quella che compriamo alla coop)!
P.i. f.: ma hai saputo dell’incidente con la tua auto?
P. a. d: Pensieri la mia auto, azz, Massimo è uscito, ha preso forse l’auto, che è successo, che si è fatto, help (sono pessimista ed ansiosa). Parole (fingo calma e indifferenza): la mia auto? Incidente?
P. i. f: ma, forse non è la tua, è quella lì parcheggiata (la indica con la mano).
P. a. d.: Pensieri Massimo è salvo!!!!!!!!! Incidente alla macchina parcheggiata???? Parole: si è la mia...
P.i. f: ma forse non è la tua!
P. a. d.: Pensieri in dialetto (quando si è nervosi esce fuori il palermitano che c’è in te) ma chi diiici? Un ricanusciu a me machina? Veru ca sugnu anticchia intolla, ma cu avi na machina color carta di zucchero ‘nta sta zona? Bedda matri! speriamo ca un si fici nenti ca già semu misi mali! (Ma cosa stai dicendo? Adesso addirittura non riconosco la mia automobile? E’ vero che sono un tantino stonata, ma chi altro possiede una auto color azzurro metallizzato in tale via? Bella madre! Speriamo che il danno non sia grave che già la nostra situazione economica non è delle migliori). Parole è la mia, la riconosco.
Insomma per farla breve un ignoto ieri sera andando contro senso nella strada in cui abitiamo ha sbandato e preso in pieno una grossa Bmw parcheggiata che si è spostata andando a finire sulla nostra auto che a sua volta si e appiccicata all’altra auto a fianco, schiacciata come una vera panella palermitana! Poi l’ignoto è scappato via.
Quando ho visto il danno ho esclamato: “poverino, speriamo non si sia fatto male!”. Poi ho pensato che per essere scappato non doveva essere malridotto, ma meglio così, certo uno come lui non dovrebbe guidare perchè rischia di far male a qualcuno, ma comunque mi sarebbe dispiaciuto vederlo ferito, spero che sia l’occasione perchè ripensi alla sua guida, a noi ha fatto un bel danno, ma per fortuna la macchina cammina ancora e prima o poi la ripareremo.
Dialogo con il ragazzo del fruttivendolo (che poi non è tanto ragazzo ma si usa dire così)
P. a. d: mammamia! Certo che correva! Poverino, speriamo non si sia fatto male!
R.d.f.: (occhi sbarrati dinanzi a tale esclamazione).
Racconto delle vicende riportate dalle voci di quartiere.
P.a.d.: rido per non piangere...
R.d.f.: che si vuole fare? Per fortuna non c’erano persone (che saggezza!)
Pad: (serafica) vabè, quando viene Massimo vediamo che dobbiamo fare, grazie, ciao!
Insomma la mia auto ha avuto un incidente da sola, è auto-noma.
Il danno è discreto, non troppo grave. Ad ora di pranzo eravamo sulla strada a discutere con una serie di sconosciuti di quartiere, è divertente vedere come una situazione del genere attiri tanta gente, tutti si fermavano come degli esperti periti ad esaminare il caso, chi prendeva i frammenti di vernice blu e li analizzava (ci mancavano i RIS di Parma), chi faceva considerazioni legali, si è avvicinato anche un avvocato (non ne mancano mai e quindi li trovi subito pronti ad intervenire), dice che forse ci si può rivalere sull’altra auto parcheggiata che dopo essere stata colpita ha preso la nostra, io dico: “ma nemmeno per sogno mi rivalgo su un’altra vittima”. L’avvocato scappa.
Si conosce tanta gente, nessuna indifferenza a Palermo!
La carne col sugo l’abbiamo mangiata alle 15:30, non potevamo di certo rinunciarci!
Oppure quante possibilità ci sono che un tizio sconosciuto, di notte, in una strada tutta piena di auto parcheggiate “scelga” di puntarne tre e la tua sia quella che sta nel centro? Quanti punti ha vinto??? E noi?
Torniamo indietro. Sta mattina sono sola a casa, Massimo ha una riunione, c’è da lottare per il nuovo lavoro, bè la precarietà, si sa... Gli ospiti sono andati via presto, non hanno nemmeno voluto la colazione. Ed allora c’è una palermitana aliena doc che finiti i suoi rapidi lavori di casa (b&b), dopo aver girovagato un po’ per i blog, decide di fare una passeggiata rinfrancante, però pioviggina, ma che sarà mai? Acquista il suo solito Fatto Quotidiano, la cipria (oltre la mente va curato anche il corpo, in questo caso la faccia), tre ottimi panini dal fornaio preferito (anche lo stomaco vuole la sua parte). L’aliena torna a casa e decide di cucinare carne al sugo, scongela la carne e si accorge di non avere salsa di pomodoro, cavolo c’è sempre in casa... alternative, carne in brodo? Nooo tanto meglio col sugo, ho una fame... E’ già quasi ora di pranzo, ma per fortuna c’è il nostro fruttivendolo sotto casa che vende di tutto, ed allora via di corsa, la salsa mi aspetta!
Dialogo con il fruttivendolo:
Palermitana aliena doc: ciao, hai forse della salsa di pomodoro?
Paolo il fruttivendolo: ciao, questa, questa o questa?
P. a. d.: questa (la più economica è sempre più cara di quella che compriamo alla coop)!
P.i. f.: ma hai saputo dell’incidente con la tua auto?
P. a. d: Pensieri la mia auto, azz, Massimo è uscito, ha preso forse l’auto, che è successo, che si è fatto, help (sono pessimista ed ansiosa). Parole (fingo calma e indifferenza): la mia auto? Incidente?
P. i. f: ma, forse non è la tua, è quella lì parcheggiata (la indica con la mano).
P. a. d.: Pensieri Massimo è salvo!!!!!!!!! Incidente alla macchina parcheggiata???? Parole: si è la mia...
P.i. f: ma forse non è la tua!
P. a. d.: Pensieri in dialetto (quando si è nervosi esce fuori il palermitano che c’è in te) ma chi diiici? Un ricanusciu a me machina? Veru ca sugnu anticchia intolla, ma cu avi na machina color carta di zucchero ‘nta sta zona? Bedda matri! speriamo ca un si fici nenti ca già semu misi mali! (Ma cosa stai dicendo? Adesso addirittura non riconosco la mia automobile? E’ vero che sono un tantino stonata, ma chi altro possiede una auto color azzurro metallizzato in tale via? Bella madre! Speriamo che il danno non sia grave che già la nostra situazione economica non è delle migliori). Parole è la mia, la riconosco.
Insomma per farla breve un ignoto ieri sera andando contro senso nella strada in cui abitiamo ha sbandato e preso in pieno una grossa Bmw parcheggiata che si è spostata andando a finire sulla nostra auto che a sua volta si e appiccicata all’altra auto a fianco, schiacciata come una vera panella palermitana! Poi l’ignoto è scappato via.
Quando ho visto il danno ho esclamato: “poverino, speriamo non si sia fatto male!”. Poi ho pensato che per essere scappato non doveva essere malridotto, ma meglio così, certo uno come lui non dovrebbe guidare perchè rischia di far male a qualcuno, ma comunque mi sarebbe dispiaciuto vederlo ferito, spero che sia l’occasione perchè ripensi alla sua guida, a noi ha fatto un bel danno, ma per fortuna la macchina cammina ancora e prima o poi la ripareremo.
Dialogo con il ragazzo del fruttivendolo (che poi non è tanto ragazzo ma si usa dire così)
P. a. d: mammamia! Certo che correva! Poverino, speriamo non si sia fatto male!
R.d.f.: (occhi sbarrati dinanzi a tale esclamazione).
Racconto delle vicende riportate dalle voci di quartiere.
P.a.d.: rido per non piangere...
R.d.f.: che si vuole fare? Per fortuna non c’erano persone (che saggezza!)
Pad: (serafica) vabè, quando viene Massimo vediamo che dobbiamo fare, grazie, ciao!
Insomma la mia auto ha avuto un incidente da sola, è auto-noma.
Il danno è discreto, non troppo grave. Ad ora di pranzo eravamo sulla strada a discutere con una serie di sconosciuti di quartiere, è divertente vedere come una situazione del genere attiri tanta gente, tutti si fermavano come degli esperti periti ad esaminare il caso, chi prendeva i frammenti di vernice blu e li analizzava (ci mancavano i RIS di Parma), chi faceva considerazioni legali, si è avvicinato anche un avvocato (non ne mancano mai e quindi li trovi subito pronti ad intervenire), dice che forse ci si può rivalere sull’altra auto parcheggiata che dopo essere stata colpita ha preso la nostra, io dico: “ma nemmeno per sogno mi rivalgo su un’altra vittima”. L’avvocato scappa.
Si conosce tanta gente, nessuna indifferenza a Palermo!
La carne col sugo l’abbiamo mangiata alle 15:30, non potevamo di certo rinunciarci!
lunedì 30 novembre 2009
I cardi in pastella. "Carduna".
C’è un cibo al quale sono particolarmente affezionata e di cui sono golosissima. E’ un tipico piatto d’asporto, facilmente reperibile in tutte le friggitorie di Palermo, ma che viene preparato anche in casa. Parlo delle verdure in pastella ed in particolare dei cardi che qui chiamiamo anche “carduna”. In pastella e fritti si fanno i carciofi, i broccoli (cavolfiori), le melanzane, ma i cardi sono i miei preferiti anche perchè mi capitava spesso di mangiarli a casa dei miei nonni, che da veri palermitani doc, con lo stomaco immune a tutte le fritture, li mangiano ancora oggi che hanno superato gli ottanta anni.
Ricordo che quando ero piccola, vederli preparare in tandem dai miei nonni era come assistere ad un rito. Cominciava mio nonno il pomeriggio a preparare la pastella. Mio nonno faceva il fornaio e quando tra le sue mani aveva la farina, lo sguardo gli si accendeva, era concentrato e felice, abile ed appassionato. Quando preparava lo sfincione, vederlo era un vero piacere, ed il risultato finale era incredibilmente soffice e poroso, ma anche vedergli fare la pastella non era poco.
Non gli servivano dosi, aveva tutto in testa, preparava una fontanella di farina e aggiungeva a poco a poco il lievito sciolto in poca acqua calda, poi aggiungeva l’acqua, l’olio e mescolava. Sembrava un alchimista ed io un po’ troppo fantasiosa, immaginavo che in uno stanzino nascondesse il suo libro di magie e misture misteriose, uno di quei libroni scritti con una grafia gotica e le lettere rosse o dorate. Se qualcuno infatti gli chiedeva di svelargli un trucco o un consiglio, cominciava a farfugliare strane e confuse parole, non so se per mantenere segreto il suo sapere o se perchè fosse difficile spiegare ciò che si fa quasi istintivamente, perchè lo si è fatto da sempre fin da bambino piccolissimo.
Alla fine delle sue strane e rapide spiegazioni, non si capiva nulla, però io mi incantavo a vedere i suoi movimenti rapidi e gentili, e rimanevo stupita, meravigliata nel vedere lievitare e cambiare di forma e dimensioni ciò che aveva preparato. Pur osservandolo, non riuscivo ad apprendere nulla ed ora me ne pento un po’ perchè lui ha perso la memoria (per fortuna non del tutto, ma non ricorda bene certe cose) che altro non era che quel librone misterioso sul quale io fantasticavo. Adesso mia nonna lo sostituisce in questa preparazione, è brava anche lei, ma mio nonno era di certo in questo più magico e misterioso, ed in fondo mi intenerisce pensare che i suoi segreti rimarranno custoditi in se stesso, che oggi è ritornato ancora ad essere un bambino innocente.
I compiti di mia nonna erano invece legati alla cottura dei cardi e alla frittura finale. Intanto lei dice che affinché i cardi siano amari al punto giusto e teneri, è molto importante saperli scegliere, ma anche questa capacità rimane avvolta in un alone di mistero, per me i cardi sono tutti uguali. Per la cottura, mia nonna segue un particolare metodo. Prepara due pentoloni d’acqua e li mette sul fuoco. Fa bollire i cardi in un pentolone, poi li scola e li rituffa nel secondo pentolone bollente. Questo metodo fa risultare i cardi teneri e non troppo amari, il colore diviene molto chiaro ed a quel punto mia nonna assaggiandoli li paragona al burro o alla banana, ciò vuol dire che è assolutamente soddisfatta della consistenza e del gusto che hanno raggiunto. C’è chi i cardi li taglia in sottili listelle, mia nonna li lascia sani.
A questo punto i carduna (raffreddati) verranno tuffati delicatamente nella pastella morbida e ben lievitata, ed immediatamente fritti in olio bollente. Il risultato è strepitoso, la pastella dorata e croccante, l’interno morbidissimo, quasi dolce ma con un punto di amaro. Mia nonna usa prepararli tutti (e ne fa grandi quantità) e riporli in fogli di carta di pane assorbente. Ad ora di cena esce fuori questo vassoio succulento. Io bambina golosona però non riuscivo mai ad aspettare l’orario di cena e addentavo almeno un cardone che mio nonno mi offriva, subito dopo averlo tolto dall’olio bollente, così caldo da bruciarmi le dita e la bocca, ma irresistibile, un antipasto veramente delizioso.
Qualche giorno fa mia nonna, per curarsi da alcuni giorni di mal di stomaco (lei usa la terapia d’urto) ha cucinato i carduna e sapendo che in famiglia tutti li apprezziamo, ne ha preparato uno per ogni componente (tranne la mia nipotina che ha solo un anno, ma conoscendo e già verificando gli effetti del suo dna, credo comincerà ad apprezzarli presto), li ha avvolti in carta stagnola e ce li ha fatti recapitare, è stata una bella sorpresa, anche perchè io non li ho mai cucinati ed era davvero da tempo che non ne mangiavo uno.
La ricetta che posterò è tratta dal tentativo che mia madre ha fatto, di carpire il procedimento seguito da mio nonno, mancano magari quei piccoli accorgimenti dati dalla sua esperienza, ma le dosi sono quelle.
Ingredienti: 500 gr farina bianca, 25 gr di lievito, 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaino di sale, acqua quanto basta, una tazzina di olio evo, 12/15 cardi, olio evo per friggere.
Pastella: In un recipiente abbastanza grande perchè la pastella dovrà aumentare di volume si mette la farina a fontanella, al centro si pone il lievito sciolto con poca acqua, lo zucchero e l’olio. Si va mescolando con le mani e aggiungendo poco alla volta l’acqua sempre battendo e lavorando bene per rendere omogeneo e liscio (senza grumi) l’impasto. La consistenza deve essere quella della besciamella. Il sale si aggiunge alla fine sempre continuando a mescolare. Quando si otterrà il risultato voluto, si lascerà almeno un’ora a riposare coprendo il recipiente con un panno (meglio porre sopra il recipiente un colapasta perchè l’impasto dovrà raddoppiare di volume).
Pulire bene e sfilare i cardi. Mettere sul fuoco due pentole di acqua salata. Nella prima versare i cardi, non appena raggiungono il bollore scolarli e versarli nell’altra pentola dove l’acqua già starà bollendo, farli cuocere per circa 15 minuti, verificare la cottura con una forchetta. Scolarli e farli raffreddare. Si possono lasciare interi o sezionarli in due parti. Quando la pastella è pronta (e non deve essere più mescolata), mettere in una padella abbondante olio, quando è caldo, immergere delicatamente un cardo alla volta nella pastella e poggiarlo in padella, friggerlo da entrambi i lati fino a una perfetta doratura.
Porli su carta assorbente ed assaporarli ancora caldi.
Ricordo che quando ero piccola, vederli preparare in tandem dai miei nonni era come assistere ad un rito. Cominciava mio nonno il pomeriggio a preparare la pastella. Mio nonno faceva il fornaio e quando tra le sue mani aveva la farina, lo sguardo gli si accendeva, era concentrato e felice, abile ed appassionato. Quando preparava lo sfincione, vederlo era un vero piacere, ed il risultato finale era incredibilmente soffice e poroso, ma anche vedergli fare la pastella non era poco.
Non gli servivano dosi, aveva tutto in testa, preparava una fontanella di farina e aggiungeva a poco a poco il lievito sciolto in poca acqua calda, poi aggiungeva l’acqua, l’olio e mescolava. Sembrava un alchimista ed io un po’ troppo fantasiosa, immaginavo che in uno stanzino nascondesse il suo libro di magie e misture misteriose, uno di quei libroni scritti con una grafia gotica e le lettere rosse o dorate. Se qualcuno infatti gli chiedeva di svelargli un trucco o un consiglio, cominciava a farfugliare strane e confuse parole, non so se per mantenere segreto il suo sapere o se perchè fosse difficile spiegare ciò che si fa quasi istintivamente, perchè lo si è fatto da sempre fin da bambino piccolissimo.
Alla fine delle sue strane e rapide spiegazioni, non si capiva nulla, però io mi incantavo a vedere i suoi movimenti rapidi e gentili, e rimanevo stupita, meravigliata nel vedere lievitare e cambiare di forma e dimensioni ciò che aveva preparato. Pur osservandolo, non riuscivo ad apprendere nulla ed ora me ne pento un po’ perchè lui ha perso la memoria (per fortuna non del tutto, ma non ricorda bene certe cose) che altro non era che quel librone misterioso sul quale io fantasticavo. Adesso mia nonna lo sostituisce in questa preparazione, è brava anche lei, ma mio nonno era di certo in questo più magico e misterioso, ed in fondo mi intenerisce pensare che i suoi segreti rimarranno custoditi in se stesso, che oggi è ritornato ancora ad essere un bambino innocente.
I compiti di mia nonna erano invece legati alla cottura dei cardi e alla frittura finale. Intanto lei dice che affinché i cardi siano amari al punto giusto e teneri, è molto importante saperli scegliere, ma anche questa capacità rimane avvolta in un alone di mistero, per me i cardi sono tutti uguali. Per la cottura, mia nonna segue un particolare metodo. Prepara due pentoloni d’acqua e li mette sul fuoco. Fa bollire i cardi in un pentolone, poi li scola e li rituffa nel secondo pentolone bollente. Questo metodo fa risultare i cardi teneri e non troppo amari, il colore diviene molto chiaro ed a quel punto mia nonna assaggiandoli li paragona al burro o alla banana, ciò vuol dire che è assolutamente soddisfatta della consistenza e del gusto che hanno raggiunto. C’è chi i cardi li taglia in sottili listelle, mia nonna li lascia sani.
A questo punto i carduna (raffreddati) verranno tuffati delicatamente nella pastella morbida e ben lievitata, ed immediatamente fritti in olio bollente. Il risultato è strepitoso, la pastella dorata e croccante, l’interno morbidissimo, quasi dolce ma con un punto di amaro. Mia nonna usa prepararli tutti (e ne fa grandi quantità) e riporli in fogli di carta di pane assorbente. Ad ora di cena esce fuori questo vassoio succulento. Io bambina golosona però non riuscivo mai ad aspettare l’orario di cena e addentavo almeno un cardone che mio nonno mi offriva, subito dopo averlo tolto dall’olio bollente, così caldo da bruciarmi le dita e la bocca, ma irresistibile, un antipasto veramente delizioso.
Qualche giorno fa mia nonna, per curarsi da alcuni giorni di mal di stomaco (lei usa la terapia d’urto) ha cucinato i carduna e sapendo che in famiglia tutti li apprezziamo, ne ha preparato uno per ogni componente (tranne la mia nipotina che ha solo un anno, ma conoscendo e già verificando gli effetti del suo dna, credo comincerà ad apprezzarli presto), li ha avvolti in carta stagnola e ce li ha fatti recapitare, è stata una bella sorpresa, anche perchè io non li ho mai cucinati ed era davvero da tempo che non ne mangiavo uno.
La ricetta che posterò è tratta dal tentativo che mia madre ha fatto, di carpire il procedimento seguito da mio nonno, mancano magari quei piccoli accorgimenti dati dalla sua esperienza, ma le dosi sono quelle.
Ingredienti: 500 gr farina bianca, 25 gr di lievito, 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaino di sale, acqua quanto basta, una tazzina di olio evo, 12/15 cardi, olio evo per friggere.
Pastella: In un recipiente abbastanza grande perchè la pastella dovrà aumentare di volume si mette la farina a fontanella, al centro si pone il lievito sciolto con poca acqua, lo zucchero e l’olio. Si va mescolando con le mani e aggiungendo poco alla volta l’acqua sempre battendo e lavorando bene per rendere omogeneo e liscio (senza grumi) l’impasto. La consistenza deve essere quella della besciamella. Il sale si aggiunge alla fine sempre continuando a mescolare. Quando si otterrà il risultato voluto, si lascerà almeno un’ora a riposare coprendo il recipiente con un panno (meglio porre sopra il recipiente un colapasta perchè l’impasto dovrà raddoppiare di volume).
Pulire bene e sfilare i cardi. Mettere sul fuoco due pentole di acqua salata. Nella prima versare i cardi, non appena raggiungono il bollore scolarli e versarli nell’altra pentola dove l’acqua già starà bollendo, farli cuocere per circa 15 minuti, verificare la cottura con una forchetta. Scolarli e farli raffreddare. Si possono lasciare interi o sezionarli in due parti. Quando la pastella è pronta (e non deve essere più mescolata), mettere in una padella abbondante olio, quando è caldo, immergere delicatamente un cardo alla volta nella pastella e poggiarlo in padella, friggerlo da entrambi i lati fino a una perfetta doratura.
Porli su carta assorbente ed assaporarli ancora caldi.
giovedì 26 novembre 2009
Io e la settimana della riduzione dei rifiuti.
Ho visto che tanti blog, a partire da quello di Lo, che si occupa spesso di queste cose, hanno pubblicizzato la settimana della riduzione dei rifiuti. Grazie al blog di Danda ho avuto delle informazioni e la segnalazione del sito rifiuti zero di Trapani che mi potrà dare qualche chiarimento in più per capirci qualcosa anche in Sicilia.
Questo post oltre a fotografare la realtà in cui vivo (si intende vista dal mio occhio) è il mio modo per dire che l’unico metodo che possa risolvere il problema dell’immondizia anche qui da noi, come in altre città del sud, è quello di cambiare la nostra mentalità, cominciare a differenziare i rifiuti e produrne una minore quantità, cosa che potrà rendere migliori le città, i nostri mari e l’aria che respiriamo.
Riutilizzare il materiale di scarto potrebbe avere anche effetti benefici sull’economia, se questa fosse concepita non solo come “il modo che pochi hanno per far soldi, speculando e rovinando l’ambiente senza scrupoli”, ma la possibilità per un territorio e per tutta la sua gente di stare meglio; non il guadagno immediato, ma la costruzione di un futuro migliore per tutti.
Sarebbe troppo complesso parlare seriamente dei problemi dell’immondizia a Palermo, degli scioperi all’AMIA, della questione inceneritori, dei lavoratori non pagati, dei buchi sui bilanci.
Quindi scelgo di parlare di come io, cittadina palermitana, non informatissima su tutte le iniziative ambientali, non integralista ecologista , non ultrà dell’igiene, ma amante della pulizia e della civiltà, desiderosa di vivere in una città dignitosa e rispettata, ma che anche mi stanco e mi faccio prendere dal quotidiano, che di tanto in tanto ho slanci e desideri di impegnarmi per far parte di quella goccia nel mare “che però può cambiare le cose”, mi relaziono a tale questione. Insomma anche se non sono un’ambientalista doc, non vado in bicicletta, non riesco ad essere pienamente ecologista, a modo mio cerco di reagire ad una realtà surreale e poco sopportabile.
“Come mi rapporto all’immondizia?” Uhm, davvero una piacevole e soprattutto profumata domanda... Non è certo una profonda ed amletica questione identitaria proposta da Shakespeare, né una domanda filosofica dell’ ironico Socrate, ma visto che io non sono né l’uno né l’altro, ma soltanto una palermitana aliena doc, è questo il mio interrogativo del giorno.
A Palermo, dubbi a parte, l’immondizia è una vera certezza, trabocca dai cassonetti, adorna le strade, brucia di tanto in tanto. Sta accumulata per giorni nei quartieri più poveri, ma non si fa desiderare nemmeno nelle vie più eleganti. Quasi quasi se un giorno ci svegliassimo e non vedessimo più quei cumuli puzzosi e multicolore, ci sentiremmo persi... che dire sono una presenza ormai rassicurante, un punto fermo in un mondo di incertezze. La ciliegina sulla torta, il tocco estetico per dare valore aggiuntivo ai bellissimi monumenti lasciati dai nostri avi e dominatori. Una signora che conosco è stata una settimana a Pesaro, quando è tornata mi ha detto: “ bellissima città, pulita e ordinata, ma mi mancava a me bedda munnizza (la mia bella immondizia)”. Gli scarti umani ci coccolano e rassicurano. I bambini spesso giocano tra quella familiare coltre trovando sempre... stimoli nuovi, i ragazzi passano il tempo a bruciarla.
Questo post oltre a fotografare la realtà in cui vivo (si intende vista dal mio occhio) è il mio modo per dire che l’unico metodo che possa risolvere il problema dell’immondizia anche qui da noi, come in altre città del sud, è quello di cambiare la nostra mentalità, cominciare a differenziare i rifiuti e produrne una minore quantità, cosa che potrà rendere migliori le città, i nostri mari e l’aria che respiriamo.
Riutilizzare il materiale di scarto potrebbe avere anche effetti benefici sull’economia, se questa fosse concepita non solo come “il modo che pochi hanno per far soldi, speculando e rovinando l’ambiente senza scrupoli”, ma la possibilità per un territorio e per tutta la sua gente di stare meglio; non il guadagno immediato, ma la costruzione di un futuro migliore per tutti.
Sarebbe troppo complesso parlare seriamente dei problemi dell’immondizia a Palermo, degli scioperi all’AMIA, della questione inceneritori, dei lavoratori non pagati, dei buchi sui bilanci.
Quindi scelgo di parlare di come io, cittadina palermitana, non informatissima su tutte le iniziative ambientali, non integralista ecologista , non ultrà dell’igiene, ma amante della pulizia e della civiltà, desiderosa di vivere in una città dignitosa e rispettata, ma che anche mi stanco e mi faccio prendere dal quotidiano, che di tanto in tanto ho slanci e desideri di impegnarmi per far parte di quella goccia nel mare “che però può cambiare le cose”, mi relaziono a tale questione. Insomma anche se non sono un’ambientalista doc, non vado in bicicletta, non riesco ad essere pienamente ecologista, a modo mio cerco di reagire ad una realtà surreale e poco sopportabile.
“Come mi rapporto all’immondizia?” Uhm, davvero una piacevole e soprattutto profumata domanda... Non è certo una profonda ed amletica questione identitaria proposta da Shakespeare, né una domanda filosofica dell’ ironico Socrate, ma visto che io non sono né l’uno né l’altro, ma soltanto una palermitana aliena doc, è questo il mio interrogativo del giorno.
A Palermo, dubbi a parte, l’immondizia è una vera certezza, trabocca dai cassonetti, adorna le strade, brucia di tanto in tanto. Sta accumulata per giorni nei quartieri più poveri, ma non si fa desiderare nemmeno nelle vie più eleganti. Quasi quasi se un giorno ci svegliassimo e non vedessimo più quei cumuli puzzosi e multicolore, ci sentiremmo persi... che dire sono una presenza ormai rassicurante, un punto fermo in un mondo di incertezze. La ciliegina sulla torta, il tocco estetico per dare valore aggiuntivo ai bellissimi monumenti lasciati dai nostri avi e dominatori. Una signora che conosco è stata una settimana a Pesaro, quando è tornata mi ha detto: “ bellissima città, pulita e ordinata, ma mi mancava a me bedda munnizza (la mia bella immondizia)”. Gli scarti umani ci coccolano e rassicurano. I bambini spesso giocano tra quella familiare coltre trovando sempre... stimoli nuovi, i ragazzi passano il tempo a bruciarla.
Se Mac Gyver, l’eroe dell’omonimo telefilm, che risolveva ogni tragica situazione trovando strani oggetti da riciclare per costruire ingegnosi strumenti di salvezza, fosse vissuto a Palermo, non avrebbe avuto grandi disagi, perchè da noi per strada si trova di tutto, ti serve un tubo, un gancio metallico, una corda, una resistenza, una pila o qualcos’altro, nessun problema, si trova subito. Ma ci sono soluzioni per tutto, se per esempio si volesse arredare casa ma non si hanno soldi, basta girare un pò per trovare senza rate e senza interessi, a costo zero, sedie, tavolini, mobilucci anni ’50, poltroncine sfondate in stile rococò, librerie in puro modernariato, materassi a molle e reti annesse, e poi i frigoriferi vanno per la maggiore, se ne trovano di tutte le forme e di tutte le dimensioni (non immaginavo che così tanta gente cambiasse così di frequente tale elettrodomestico). Ma non sono solo gli antiquari e amanti del restauro ad essere accontentati, anche se si è appassionati della tecnologia non c’è alcun problema, al “mega store del cassonetto” si trovano computer, tastiere, telefoni, insomma c’è di tutto e per tutti i gusti ed interessi. Bello no?
A Palermo ci sono i cassonetti per la differenziata, è una grande città, come farne a meno? Però quando il contenuto va in discarica, come per miracolo, ciò che prima era separato, subito dopo è di nuovo ben mischiato, non si dice infatti “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito?”, ma non pensavo che ci si riferisse a questo...
Dicono che la finta differenziata serva ad educare i cittadini, ma l’intento non ha avuto buon fine, così dentro ed attorno a quei bei campanoni separatori si trova di tutto, vestiti infilati ad uno ad uno nel buco per le bottiglie (ci vuole impegno e ingegno), tubi di plastica o zinco tra la carta, sacchetti contenenti vetro nel vetro (ma il sacchetto di plastica non si poteva togliere?). La loro utilità maggiore è però durante le campagne elettorali, vengono scelti da ogni schieramento, come luogo per affiggere i propri manifesti, e già questo dovrebbe far pensare.
Quando c’è stata la pioggia e gli allagamenti, i sacchettini galleggiavano come piccole boe o salvagente (in caso di necessità forse...). Quando è troppa, i giovani per trasgredire (ognuno ha il suo modo) li bruciano e poi rimangono lì a godersi lo spettacolo esaltante delle fiamme e del fumo nero e ad assaporarne il profumo.
Quando c’è stata l’emergenza rifiuti, per più di una settimana non la raccoglievano. Io ho avuto una piccola idea, cominciare a differenziare, così almeno tenevo in casa plastica, carta e vetro non maleodoranti e riducevo il volume nei cassonetti. Questa idea non è stata pensata da molti, anzi, la gran parte dei miei concittadini ha approfittato del momento per svuotare la casa da tutte quelle chincaglierie che si conservano per anni e poi un giorno si realizza che non servono a nulla, e quel giorno era appena arrivato, giusto la settimana in cui non veniva raccolta l’immondizia, e così oltre ai normali sacchetti, si è pensato di eliminare la camera da letto della nonna, la lavatrice rotta e riposta in cantina, il recipiente di amianto, tanto c’è l’emergenza, chi se ne accorgerà?
Successivamente, ho continuato con incostanza, lo ammetto, a separare l’immondizia e ad imbucarla negli appositi cassonetti con non poca tristezza perchè sono ripieni di tutt’ altro. Per non produrre troppe bottiglie di plastica vado spesso a riempire l’acqua a casa di mio padre che ha il depuratore, perchè a Palermo l’acqua c’è ma non si beve. Il sapore è orrendo, non solo per il cloro, ma anche perchè risiede nelle cisterne che tutti abbiamo perchè l’acqua non arriva tutti i giorni. Quindi la soluzione è comprare le bottiglie oppure andare in qualche paesino di montagna dotati di bidoni a trovare una fontana o comprare un costoso depuratore.
Ma per ridurre le confezioni di plastica hanno inventato i distributori “alla spina”.
Quelli del latte non li ho mai visti, ora per fortuna hanno aperto un solo negozio con il distributore di saponi, è un pò distante da casa mia, ma cercherò di andarci. Ogni tanto preparo il detersivo per i piatti usando lo spruzzino con acqua e aceto. Cerco di evitare le confezioni ingombranti, ma ogni tanto, ammetto, che al supermercato acquisto quelle confezioni bianche contenenti la carne, la fretta è amica dell’immondizia.
L’anno scorso ho contattato una cooperativa che faceva la raccolta differenziata, ma solo un mese dopo l’apertura, hanno chiuso perchè gli hanno tagliato i fondi promessi, ora sono ancora in sciopero.
Non voglio essere la solita siciliana che si lamenta e pensa che mai nulla potrà cambiare, ma quando esci di casa e ti trovi davanti quei cumuli ti senti un pò impotente, eppure basterebbe cominciare e forse qualcosa cambierebbe. Adesso ho deciso che seguendo le informazioni trovate sui blog proverò ad inquinare di meno ed a produrre minori quantità di rifiuti e se capirò che anche qui qualcosa si sta già facendo o si può fare, comincerò a darne informazione!
In questo post ho voluto focalizzare maggiormente l’attenzione sui cittadini e non sulle istituzioni, perchè credo che il più positivo cambiamento possa venire solo dalla gente.
Una piccola “nota istituzionale” però la voglio scrivere. C’è una tecnica che spesso viene utilizzata dai politici che mi richiama il detto siciliano “pulizia unni viri a suoggira” (pulisci dove vede la suocera). Ovvero, quando arriva un potente di turno, si pulisce il percorso ripreso dalle telecamere e la via dove passerà il nobile piede. Girando però lo sguardo, l’immondizia è ben riposta e nascosta, proprio come accade a chi riceve la visita della suocera e nasconde la polvere sotto il tappeto. Non appena “l’onorevole suocera” va via tutto ritorna precisamente come prima.
domenica 22 novembre 2009
La nebbia a Palermo
foto da internet
News da Palermo.
Non sono brava a fare gli scoop, mi accorgo sempre per ultima di ciò che mi accade intorno. Come non ho sentito (per fortuna) il terremoto, non ho visto la nebbia che ieri ha avvolto Palermo sconvolgendo i miei concittadini.
Insomma, quando la nebbia si è improvvisamente presentata, io dormivo. Lo so, lo so, chi dorme non piglia pesci, ma io un sonnellino ristoratore lo dovevo fare! Alle 16.00 la nebbia si è assottigliata e quando io (dopo un pò...) baldanzosa mi sono svegliata intenzionata a fare una passeggiatina salutare in giro per la “città più bella del mondo”, guardo dalla finestra e vedo il buio, ma come un Watson incalzato da Sherlock Holmes, non mi accorgo dell’elementare realtà, nessun indizio per il mio assonnato intuito, penso che l’inverno è proprio arrivato, la sera arriva prima!
Desisto dal fare la passeggiata, mi piace la luce del sole, lo so, sono abituata male dalla mia città sempre soleggiata. In serata usciamo, e questa volta in due, e sempre molto perspicaci, non notiamo niente di strano. Prendiamo la nostra macchinina e cominciamo a dissertare sulle condizioni del parabrezza: “come mai non si vede nulla?”, “da quanti mesi non viene lavata l’auto?”, “ma no, sono quelle cosine appiccicose che cadono dagli alberi ad averlo reso opaco”, “ma c’è uno smog in questa città!”. Andiamo in una festicciola organizzata da un’associazione che opera nel sociale, cena interetnica e concerto, che bello! Siamo offuscati, prendiamo un senso vietato, si vede poco in effetti, un poliziotto ci ferma e ci comprende, parcheggiamo e attraversiamo a piedi un grande giardino. Si vede poco, tutto buio ma in modo inusuale, Massimo stropiccia gli occhi io sono solo concentrata a non incontrare cani randagi, pronta alla fuga rapida. Raggiungiamo appiccicosi il luogo. Troviamo due amici. Dopo un pò ci dicono “avete visto la nebbia?”. Noi :“what’s nebbia a Palermo?”. L’amico: “ma guardatevi intorno, è diminuita ma ancora c’è”. Noi: “veeero, ecco perchè il parabrezza era appannato, etc, etc”. Insomma a Palermo tutti parlavano di questo, tranne due ignari dormiglioni e distratti.
Oggi tutti i giornali parlavano di questo evento inconsueto, non ci bastava l’immondizia, il traffico, le tre piaghe della Sicilia, ora pure la nebbia!
Una nebbia che viene dall’Africa che durerà qualche giorno (oggi non l' ho vista nemmeno), una nebbia che i palermitani paranoici, intasando i centralini dei vigili del fuoco, hanno scambiato per nube tossica, incendio, attentato, altri per caldarrostari ed i più affamati per un’ invasione di stigghiolari...
Adesso dicono di non uscire. Un giornalista diffusore di serenità scrive: “la nebbia creata dall’umidità potrebbe favorire il contagio della suina”. Cavolo, questo no, pure lo spauracchio del contagio non ci voleva, di certo oltre che la serenità della gente già in crisi, anche il turismo ne gioverà...
Insomma io spavalda ipocondriaca ho deciso di fare la mia passeggiata salutare e contagiosa, niente nebbia, cielo limpido e splendente, caldo piacevole, tutto sereno, i siculi, è così, siamo fatalisti, non sarà nemmeno questo a farci rimanere in casa “tanto se deve capitare...”.
Insomma se la nebbia fa così male, che potrebbe succedere in Val Padana? Forse un Bossi del momento, visto che la nebbia proviene dall’Africa, la farà prontamente rimpatriare dicendo: “ma ce l’ha il permesso di soggiorno?”, oppure: “la nebbia clandestina potrebbe essere fonte di terrorismo, criminalità (nel buio si sa...), sporcizia e malattia”.
Insomma cara Nebbia anomala giunta in Sicilia spinta dal vento della bella e povera Africa, che io non ho nemmeno notato, che non mi hai spaventata malgrado gli allarmismi e le mie personali paure, se vuoi resta pure quanto vuoi, mi fai già simpatia, hai creato clamore e un momento di riflessione su chi vive chiuso nel suo quotidiano, sconvolgendolo un pò, ed ogni tanto serve qualcosa di diverso per cambiare, nel mio caso hai fatto da contorno ad una giornata per me particolarmente bella, che non dimenticherò.
Ora scherzi, analogie etc a parte, allietata dal sole, mi sono goduta un piatto di pasta al forno, e se la nebbia tornerà, al massimo mi faccio un altro sonnellino!
News da Palermo.
Non sono brava a fare gli scoop, mi accorgo sempre per ultima di ciò che mi accade intorno. Come non ho sentito (per fortuna) il terremoto, non ho visto la nebbia che ieri ha avvolto Palermo sconvolgendo i miei concittadini.
Insomma, quando la nebbia si è improvvisamente presentata, io dormivo. Lo so, lo so, chi dorme non piglia pesci, ma io un sonnellino ristoratore lo dovevo fare! Alle 16.00 la nebbia si è assottigliata e quando io (dopo un pò...) baldanzosa mi sono svegliata intenzionata a fare una passeggiatina salutare in giro per la “città più bella del mondo”, guardo dalla finestra e vedo il buio, ma come un Watson incalzato da Sherlock Holmes, non mi accorgo dell’elementare realtà, nessun indizio per il mio assonnato intuito, penso che l’inverno è proprio arrivato, la sera arriva prima!
Desisto dal fare la passeggiata, mi piace la luce del sole, lo so, sono abituata male dalla mia città sempre soleggiata. In serata usciamo, e questa volta in due, e sempre molto perspicaci, non notiamo niente di strano. Prendiamo la nostra macchinina e cominciamo a dissertare sulle condizioni del parabrezza: “come mai non si vede nulla?”, “da quanti mesi non viene lavata l’auto?”, “ma no, sono quelle cosine appiccicose che cadono dagli alberi ad averlo reso opaco”, “ma c’è uno smog in questa città!”. Andiamo in una festicciola organizzata da un’associazione che opera nel sociale, cena interetnica e concerto, che bello! Siamo offuscati, prendiamo un senso vietato, si vede poco in effetti, un poliziotto ci ferma e ci comprende, parcheggiamo e attraversiamo a piedi un grande giardino. Si vede poco, tutto buio ma in modo inusuale, Massimo stropiccia gli occhi io sono solo concentrata a non incontrare cani randagi, pronta alla fuga rapida. Raggiungiamo appiccicosi il luogo. Troviamo due amici. Dopo un pò ci dicono “avete visto la nebbia?”. Noi :“what’s nebbia a Palermo?”. L’amico: “ma guardatevi intorno, è diminuita ma ancora c’è”. Noi: “veeero, ecco perchè il parabrezza era appannato, etc, etc”. Insomma a Palermo tutti parlavano di questo, tranne due ignari dormiglioni e distratti.
Oggi tutti i giornali parlavano di questo evento inconsueto, non ci bastava l’immondizia, il traffico, le tre piaghe della Sicilia, ora pure la nebbia!
Una nebbia che viene dall’Africa che durerà qualche giorno (oggi non l' ho vista nemmeno), una nebbia che i palermitani paranoici, intasando i centralini dei vigili del fuoco, hanno scambiato per nube tossica, incendio, attentato, altri per caldarrostari ed i più affamati per un’ invasione di stigghiolari...
Adesso dicono di non uscire. Un giornalista diffusore di serenità scrive: “la nebbia creata dall’umidità potrebbe favorire il contagio della suina”. Cavolo, questo no, pure lo spauracchio del contagio non ci voleva, di certo oltre che la serenità della gente già in crisi, anche il turismo ne gioverà...
Insomma io spavalda ipocondriaca ho deciso di fare la mia passeggiata salutare e contagiosa, niente nebbia, cielo limpido e splendente, caldo piacevole, tutto sereno, i siculi, è così, siamo fatalisti, non sarà nemmeno questo a farci rimanere in casa “tanto se deve capitare...”.
Insomma se la nebbia fa così male, che potrebbe succedere in Val Padana? Forse un Bossi del momento, visto che la nebbia proviene dall’Africa, la farà prontamente rimpatriare dicendo: “ma ce l’ha il permesso di soggiorno?”, oppure: “la nebbia clandestina potrebbe essere fonte di terrorismo, criminalità (nel buio si sa...), sporcizia e malattia”.
Insomma cara Nebbia anomala giunta in Sicilia spinta dal vento della bella e povera Africa, che io non ho nemmeno notato, che non mi hai spaventata malgrado gli allarmismi e le mie personali paure, se vuoi resta pure quanto vuoi, mi fai già simpatia, hai creato clamore e un momento di riflessione su chi vive chiuso nel suo quotidiano, sconvolgendolo un pò, ed ogni tanto serve qualcosa di diverso per cambiare, nel mio caso hai fatto da contorno ad una giornata per me particolarmente bella, che non dimenticherò.
Ora scherzi, analogie etc a parte, allietata dal sole, mi sono goduta un piatto di pasta al forno, e se la nebbia tornerà, al massimo mi faccio un altro sonnellino!
venerdì 20 novembre 2009
Olio extra vergine d'oliva e "pasta cu l'agghio e l'uogghio"
Visto che sono in vena di olive, scriverò un post in tema, quindi ancora ulivi, olio e un primo piatto dove l’olio è basilare.
Foto Jan-Luc Moreau
La mia “neopassione” per le olive è nata soprattutto in seguito alla raccolta di queste, anche se devo ammettere che l’ulivo è sempre stato un albero che ho considerato affascinante. Saggio, curvo, ricco di storia e di valori come alcuni anziani che si incontrano nelle campagne siciliane, con la schiena un po’ piegata dalla giovinezza trascorsa a faticare, camminano lentamente nei bordi selvatici delle strade, con la pelle del volto arsa dal sole, le dita delle mani nodose proprio come i rami di ulivo, il capo protetto da una coppola di paglia, lo sguardo ancora fiero ed orgoglioso, pronti al saluto, rispettosi e ospitali con l’estraneo, che se ti raccontano la loro storia, in una lingua incomprensibile ai non siciliani o ai più giovani, esprimono una saggezza rara, così mi è sempre sembrato l’ulivo, umile, anziano e sapiente nella sua semplicità.
In questo periodo mi sono ritrovata a vedere tante olive, nei miei barattoli, sugli alberi traboccanti, durante una bella passeggiata a San Giuseppe Iato. Ne ho già mangiate parecchie. Con tanta soddisfazione il primo esperimento delle olive nere sotto sale (dette passuluna) è andato bene e mi ha tolto l’illusione che le nostre olive ci sazieranno per un anno, come avevo erroneamente ipotizzato, credo che vista la golosità che ci contraddistingue, è già un miracolo se resisteranno qualche mese.
In Sicilia ci sono tantissimi alberi di ulivo, ed alcuni sono molto antichi, ho letto in un bel libro che si intitola “Arborea. La storia di Palermo in cento alberi illustri” scritto dal giornalista Mario Pintagro, che tra Montelepre e Borgetto, località poco distanti da Palermo, esistono degli ulivi che hanno 300/400 anni, la loro circonferenza è di circa 5 metri, alberi sopravvissuti ad un disboscamento effettuato per coltivare cannamele o vite. Comunque in tutta la Sicilia, si trovano infiniti boschi di ulivo, e proprio questo è il periodo in cui moltissime persone si recano nei frantoi disseminati in tutto il territorio, per acquistare l’olio appena estratto.
Il costo da quello che ho potuto capire varia tra 4,50€ e 5,50€ al litro, e visti i prezzi dell’olio “del supermercato” è preferibile acquistarlo al frantoio (meglio se indicato da qualcuno che lo conosce e ne abbia appurato la serietà), il gusto è del tutto differente, profuma di olive vere, all’inizio può apparire troppo pungente e intenso, ma col tempo si stabilizza e vista la densità, basta usarne poco per donare gusto alle pietanze.
foto frantoio Judy Witts
Foto Jan-Luc Moreau
La mia “neopassione” per le olive è nata soprattutto in seguito alla raccolta di queste, anche se devo ammettere che l’ulivo è sempre stato un albero che ho considerato affascinante. Saggio, curvo, ricco di storia e di valori come alcuni anziani che si incontrano nelle campagne siciliane, con la schiena un po’ piegata dalla giovinezza trascorsa a faticare, camminano lentamente nei bordi selvatici delle strade, con la pelle del volto arsa dal sole, le dita delle mani nodose proprio come i rami di ulivo, il capo protetto da una coppola di paglia, lo sguardo ancora fiero ed orgoglioso, pronti al saluto, rispettosi e ospitali con l’estraneo, che se ti raccontano la loro storia, in una lingua incomprensibile ai non siciliani o ai più giovani, esprimono una saggezza rara, così mi è sempre sembrato l’ulivo, umile, anziano e sapiente nella sua semplicità.
In questo periodo mi sono ritrovata a vedere tante olive, nei miei barattoli, sugli alberi traboccanti, durante una bella passeggiata a San Giuseppe Iato. Ne ho già mangiate parecchie. Con tanta soddisfazione il primo esperimento delle olive nere sotto sale (dette passuluna) è andato bene e mi ha tolto l’illusione che le nostre olive ci sazieranno per un anno, come avevo erroneamente ipotizzato, credo che vista la golosità che ci contraddistingue, è già un miracolo se resisteranno qualche mese.
In Sicilia ci sono tantissimi alberi di ulivo, ed alcuni sono molto antichi, ho letto in un bel libro che si intitola “Arborea. La storia di Palermo in cento alberi illustri” scritto dal giornalista Mario Pintagro, che tra Montelepre e Borgetto, località poco distanti da Palermo, esistono degli ulivi che hanno 300/400 anni, la loro circonferenza è di circa 5 metri, alberi sopravvissuti ad un disboscamento effettuato per coltivare cannamele o vite. Comunque in tutta la Sicilia, si trovano infiniti boschi di ulivo, e proprio questo è il periodo in cui moltissime persone si recano nei frantoi disseminati in tutto il territorio, per acquistare l’olio appena estratto.
Il costo da quello che ho potuto capire varia tra 4,50€ e 5,50€ al litro, e visti i prezzi dell’olio “del supermercato” è preferibile acquistarlo al frantoio (meglio se indicato da qualcuno che lo conosce e ne abbia appurato la serietà), il gusto è del tutto differente, profuma di olive vere, all’inizio può apparire troppo pungente e intenso, ma col tempo si stabilizza e vista la densità, basta usarne poco per donare gusto alle pietanze.
foto frantoio Judy Witts
Quando si acquista l’olio dal frantoio, bisogna preferibilmente travasarlo in bottiglioni di vetro e lasciarli almeno una settimana senza il coperchio, in modo da farlo evaporare. A questo punto si deve farlo depositare. Quando si distinguono bene le due parti separate (una più trasparente, e al fondo quella opaca, che qui chiamiamo murga), si può travasare lentamente l’olio in altre bottiglie che potranno già essere consumate, lasciando da parte il fondo depositato dall’aspetto melmoso. Ma visto che non bisogna buttare nulla, o almeno il minimo possibile, attendendo altri giorni anche quel deposito si dividerà in due parti, così si potrà procedere al travaso della parte più trasparente e procedendo nello stesso modo più volte, alla fine rimarrà davvero poco da buttare, su un bidone di dieci litri, circa mezzo bicchiere di deposito finale da eliminare, che se però venisse lasciato, rischierebbe di far “ammurgare” (non so tradurre, ma il senso è che rovinerebbe il gusto) tutto l’olio. Insomma ci vuole sempre un pò di fatica e pazienza per ottenere qualcosa di buono!
foto Emilia Merenda
Un episodio divertente legato all’olio è capitato a due nostri ospiti olandesi. Sapendo del valore dell’olio siciliano, ci domandarono dove potessero trovare un frantoio per acquistarne un pò da portare con sè nella terra natia. Visto che non era il periodo di produzione e soprattutto che per raggiungere i frantoi generalmente bisogna avventurarsi in campagne “inesplorate” (e pur avendo l’auto a noleggio, avevano una certa difficoltà, già traumatizzati dal traffico palermitano), consigliammo di andare in un comune in provincia di Palermo, dove avevamo trovato l’indirizzo di un frantoio), aggiungemmo anche di chiedere alla gente del luogo, di certo più informata di noi. Non trovarono il frantoio consigliato, e cominciarono a domandare in paese, trovandosi così a vivere un’esperienza surreale. Insomma i miei esperti e solerti conterranei dissero agli olandesi di rivolgersi ai Carabinieri. Ora, capisco “l’urgenza” e la voglia di accontentare, ma i Carabinieri per l’olio??? I nostri ospiti imbarazzati, ma ben incoraggiati, andarono alla caserma del luogo e domandarono dell’olio extra vergine d’oliva, insomma tra una denuncia e l’altra, una richiesta del genere ci può stare, dopo qualche domanda di rito, un carabiniere ben lieto, si allontanò e portò una bottiglia contenente due litri di olio che omaggiò ai due turisti. Loro tornarono a casa stupiti, meravigliati, piegati in due dalle risate, contenti per cotanta siculogentilezza. Ho omesso di proposito il luogo, non vorrei che tale caserma fosse intasata da altri cercatori d’olio.
E finalmente, per concludere, un piatto di pasta semplicissimo dove l’olio è il protagonista principale, il più scontato forse, ma che accontenta sempre tutti. Il piatto tipico più mangiato dagli studenti senza soldi, dalle famiglie stressate dal lavoro e dal caro vita, dai single che non sanno cucinare, quello che si mangia a mezzanotte con gli amici dicendo semplicemente: “ci facciamo una spaghettata?” o ancora meglio “nni manciamu ru fila ri paista?”. Insomma parlo della spaghettata cu l’agghiu e l’uogghiu (aglio e olio).
Ci sono, come sempre, diverse scuole di pensiero sulla preparazione di questo piatto, qui, la mia versione.
Per 300gr di pasta.
Mettere a macerare in una scodella dell’ abbondante olio evo con tre spicchi d’aglio tagliati a pezzi grossi (così chi non li ama potrà poi toglierli) e privati del germoglio centrale, del peperoncino e abbondante prezzemolo fresco tritato. Più tempo sta a macerare più gusto assume, se non si ha tempo va bene comunque.
Mettere a macerare in una scodella dell’ abbondante olio evo con tre spicchi d’aglio tagliati a pezzi grossi (così chi non li ama potrà poi toglierli) e privati del germoglio centrale, del peperoncino e abbondante prezzemolo fresco tritato. Più tempo sta a macerare più gusto assume, se non si ha tempo va bene comunque.
Preparare la “muddica atturrata” (per me essenziale e determinante per un buon risultato finale), facendo abbrustolire del pangrattato con un pizzico di sale in un padellino antiaderente.
Cucinare la pasta e scolarla al dente, aggiungere il condimento, mescolare bene, preparare i piatti decorandoli con altro prezzemolo, chi vorrà potrà aggiungere il pangrattato.
Chi prepara ingenti quantità di pasta potrà aggiungere dell’ acqua di cottura della pasta, per mescolare meglio il tutto (io preferisco decisamente non farlo).
La mia è la versione “a freddo”, c’è chi scalda per un pò l’aglio in padella con l’olio e ci sono tante altre varianti.
Insomma la pasta più semplice che possa esistere!
E pensando agli ulivi, al sud, alla campagna, ecco una delle mie canzoni preferite.
lunedì 9 novembre 2009
L’ulivo tra religione, mito e storia. La mia salamoia
Dopo aver raccolto le olive e averle “curate” con amore, non potevo esimermi dal parlare delle origini dell’ulivo, un albero molto affascinante e dalla valenza simbolica e religiosa molto forte e costante nei secoli.
Se si pensa all’ulivo non si può non pensare alla pace. Magari qualcuno penserà anche alla coalizione fondata nell’ormai lontanissimo 1995 da Prodi and company per succedere a Mister B, ma sono altri tempi, io passerei direttamente alla Bibbia... Una colomba tornò nell’arca di Noé portando col becco un ramoscello d’olivo, e la pace fra Dio e gli uomini fu fatta, o almeno così sembrava.
Nel cristianesimo l’ulivo ha un ruolo molto importante. Dalla Bibbia ai Vangeli, sottoforma di pianta o di olio è spesso presente, già l’appellativo di Cristo significa unto (ma ancora prima del cristianesimo le consacrazioni generalmente avvenivano tramite l’unzione) ed in quasi tutte le ritualità cattoliche si usa l’olio, dalla nascita alla morte.
Per l’uso del ramo di ulivo, basterà ricordare l’arrivo di Gesù a Gerusalemme, dove oltre che sventolare le palme, la gente agitava per acclamazione, i rami d’ulivo, e tuttora per la domenica delle Palme si fanno benedire anche questi rametti, che spesso a Palermo vengono in precedenza dipinti d’oro o d’argento e regalati ad amici e parenti. Ma riguardo alla pacifica pianticella ci sarebbero tantissimi altri episodi.
Oltre che nella religione cristiana, l’ulivo e l’olio sono presenti in altri culti e precedenti civiltà.
Ma chi ha inventato l’ulivo? Posso assicurare che questa volta i palermitani, che si attribuiscono tantissime celebri invenzioni, non c’entrano niente.
In questo caso bisogna far ricorso alla mitologia greca.
I bizzarri e “umanoidi” Dei dell’Olimpo erano sempre in rivalità tra loro, se a “quei tempi” ci fosse stato Ballarò o “Porta a Porta”, avrebbero litigato di certo, ma “arbitrati” dai rispettivi giornalisti, rilasciato interviste in libri in uscita o aspettato la telefonata di Zeus (famoso tra l’altro per scagliare fulmini verso i nemici e per essere un seduttore di donne grazie alle sue capacità “trasformiste”).
Anche in questa storia c’è un litigio di mezzo, sia Atena che Poseidone volevano “la Presidenza onoraria” di una regione, l’Attica, ed in particolare di una importante città. Zeus lanciò una vera sfida (le primarie non gli piacevano), i due contendenti dovevano fare un utile dono alla città, un tribunale presieduto dal re Cecrope ( che era per metà uomo e per metà serpente, insomma viscido come alcuni personaggi di oggi) doveva decidere quale fosse quello migliore. Geniale in effetti. Poseidone optò per una sorgente d’acqua salata (utile non c’è che dire!), però alcune altre fonti parlano di un toro o di cavalli (per la guerra), Atena che era pure figlia di Zeus (più avvantaggiata, anche lì la meritocrazia...) e dea più intelligente, inventò un albero di ulivo, che sembrò essere un dono più utile e lungimirante (soprattutto in tempi di pace): poteva nutrire col suo frutto, illuminare le notti bruciandone l’olio, usarne le foglie per fare coroncine, farne unguenti per massaggiare gli atleti e per lenire le rughe dei più vanitosi. Insomma la scelta fu immediata, la città in onore della Dea fu chiamata Atene e così nacque un albero veramente mitico!
Ma adesso andiamo alle origini dell’ulivo in Italia e soprattutto in Sicilia. Ritorniamo alla mitologia, c’era un’altro figlio d’arte, Aristeo (il padre era Apollo e la madre Cirene), che in gioventù aveva imparato come fare la guerra ma anche l’agricoltura e la pastorizia. Per nostra fortuna scelse la strada più pacifica e insegnò ai Greci l’arte di estrarre l’olio. Attratto dalla bella Sicilia, vi si recò e introdusse la coltivazione dell’ulivo e l’uso del “trappeto” (antesignano del frantoio, in Sicilia c’è un paese che ne prende il nome), ogni tanto anche gli dei ne facevano una buona.
Furono forse i Fenici a diffondere l’ulivo nel resto d’Italia, dove i primi coltivatori furono gli Etruschi e poi i Romani.
I siciliani si distinsero subito nella salamoia (per questo non potevo tirarmi indietro dal farla).
I sicelioti erano così devoti all’ulivo che esiliavano chi osasse sradicarne un solo albero.
E mi sembra quasi ovvio dire che furono poi gli arabi a consolidare la coltivazione dell’ulivo in Sicilia, alcuni termini legati ai suoi frutti derivano infatti dall’arabo, come la “giara”, che è il vaso contenente l’olio, da cui prese il nome una celebre novella Pirandello, la “burnia” (vaso per contenere le olive), il “cafisi” (unità di misura dell’olio, oltre che il soprannome di un anziano venditore di olio di un centro marittimo in provincia di Palermo. Ed io che credevo fosse il suo cognome...).
Ci sarebbero moltissime altre informazioni da dare, ma concludo qui, con una piccola nota. A Palermo (devo dire che non so nel resto d’Italia) le olive vengono distinte in bianche e nere, non siamo daltonici, è un modo di dire, se vi offrono le olive bianche state certi, si tratta di olive verdi!
E ora finalmente la mia salamoia. Dopo informazioni in famiglia ed infinite ricerche su google, è così che ho fatto. Prima ho lavato tutte le olive in mio possesso separandole in diverse bacinelle tra verdi e nere. Le ho lasciate in ammollo per un giorno intero. Poi le ho asciugate ed ho eliminato quelle rovinate o contenenti un vermetto traditore.
Olive verdi schiacciate in salamoia:
Dopo averle lavate e asciugate, mi sono divertita a colpirle una per una con un martello (stando attenta a non rompere il nocciolo), attività che necessita di pazienza, ma che ha un effetto liberatorio e antistress. Le ho messe in un recipiente e coperte di acqua (ho posto sopra un piatto “galleggiante” per far in modo che nessuna stesse fuori dall’acqua, ho letto che si rovinerebbero. Si potrebbe anche usare un panno, ma visto che aggiungo l’ammorbidente in lavatrice, non volevo dare alle olive un effetto troppo soft). Le ho lasciate così per 3 giorni, cambiando l’acqua tutti i giorni (usciva di colore marrone). Il 4° giorno ho fatto la salamoia con 80 gr. di sale per ogni litro di acqua, più precisamente ho messo l’acqua a bollire, ho spento il fuoco e aggiunto il sale. Quando si è raffreddata ho messo le olive in un barattolone a chiusura ermetica (dopo un po’ di ricerche per acquistarlo) e le ho coperte con la salamoia ormai fredda (dimenticavo, ci vuole un litro d’acqua per ogni chilo di olive). Nel barattolo ho aggiunto uno spicchio d’aglio (con buccia) ed ho ricoperto il tutto con foglie d’alloro (sempre per non far stare le olive fuori dall’acqua). Per verificare il risultato finale bisognerà aspettare quindici giorni, dopo potranno essere consumate, condite a piacimento (a me piacciono con olio, aceto, aglio, sedano e origano). In salamoia sopravvivono per almeno tre mesi.
Olive nere in salamoia:
Dopo averle lavate le ho incise con un coltello (si può fare anche un buco con uno stuzzicadenti) e messe a bagno (come sopra ) per 4 giorni cambiando giornalmente l’acqua (in questo caso violacea). Al quarto giorno le ho sciacquate, scolate e messe in un vaso alternandole a strati di sale. Le ho lasciate così per 24 ore. Il giorno successivo ho aggiunto l’acqua (sempre un litro per ogni chilo di olive). E per ora è qui che sono arrivata. Bisogna lasciarle così per un mese e mezzo, e successivamente travasarle in altri vasi dopo averle scolate e aggiunto una salamoia fatta sempre facendo bollire l’acqua ed in questo caso mettendo 20 gr di sale per ogni litro. Possono resistere in questa salamoia per circa un anno.
Olive nere sotto sale (passuluna):
Dopo aver lavato le olive e averle ben asciugate, bisogna metterle in un colapasta con abbondante sale, scuoterle giornalmente e ogni tre giorni circa aggiungere altro sale. Dopo 15 giorni dovrebbero essere pronte, si può quindi prendere la quantità necessaria e sciacquarla con acqua o meglio con aceto e condirle con olio e rosmarino). In questo caso la durata è di circa 15 giorni (da quando sono pronte). Se invece del colapasta si usa un barattolo, bisogna star attenti ad eliminare il liquido che si produce (ma nel mio caso, non so perchè, non esce nemmeno una goccia di liquido).
Se si pensa all’ulivo non si può non pensare alla pace. Magari qualcuno penserà anche alla coalizione fondata nell’ormai lontanissimo 1995 da Prodi and company per succedere a Mister B, ma sono altri tempi, io passerei direttamente alla Bibbia... Una colomba tornò nell’arca di Noé portando col becco un ramoscello d’olivo, e la pace fra Dio e gli uomini fu fatta, o almeno così sembrava.
Nel cristianesimo l’ulivo ha un ruolo molto importante. Dalla Bibbia ai Vangeli, sottoforma di pianta o di olio è spesso presente, già l’appellativo di Cristo significa unto (ma ancora prima del cristianesimo le consacrazioni generalmente avvenivano tramite l’unzione) ed in quasi tutte le ritualità cattoliche si usa l’olio, dalla nascita alla morte.
Per l’uso del ramo di ulivo, basterà ricordare l’arrivo di Gesù a Gerusalemme, dove oltre che sventolare le palme, la gente agitava per acclamazione, i rami d’ulivo, e tuttora per la domenica delle Palme si fanno benedire anche questi rametti, che spesso a Palermo vengono in precedenza dipinti d’oro o d’argento e regalati ad amici e parenti. Ma riguardo alla pacifica pianticella ci sarebbero tantissimi altri episodi.
Oltre che nella religione cristiana, l’ulivo e l’olio sono presenti in altri culti e precedenti civiltà.
Ma chi ha inventato l’ulivo? Posso assicurare che questa volta i palermitani, che si attribuiscono tantissime celebri invenzioni, non c’entrano niente.
In questo caso bisogna far ricorso alla mitologia greca.
I bizzarri e “umanoidi” Dei dell’Olimpo erano sempre in rivalità tra loro, se a “quei tempi” ci fosse stato Ballarò o “Porta a Porta”, avrebbero litigato di certo, ma “arbitrati” dai rispettivi giornalisti, rilasciato interviste in libri in uscita o aspettato la telefonata di Zeus (famoso tra l’altro per scagliare fulmini verso i nemici e per essere un seduttore di donne grazie alle sue capacità “trasformiste”).
Anche in questa storia c’è un litigio di mezzo, sia Atena che Poseidone volevano “la Presidenza onoraria” di una regione, l’Attica, ed in particolare di una importante città. Zeus lanciò una vera sfida (le primarie non gli piacevano), i due contendenti dovevano fare un utile dono alla città, un tribunale presieduto dal re Cecrope ( che era per metà uomo e per metà serpente, insomma viscido come alcuni personaggi di oggi) doveva decidere quale fosse quello migliore. Geniale in effetti. Poseidone optò per una sorgente d’acqua salata (utile non c’è che dire!), però alcune altre fonti parlano di un toro o di cavalli (per la guerra), Atena che era pure figlia di Zeus (più avvantaggiata, anche lì la meritocrazia...) e dea più intelligente, inventò un albero di ulivo, che sembrò essere un dono più utile e lungimirante (soprattutto in tempi di pace): poteva nutrire col suo frutto, illuminare le notti bruciandone l’olio, usarne le foglie per fare coroncine, farne unguenti per massaggiare gli atleti e per lenire le rughe dei più vanitosi. Insomma la scelta fu immediata, la città in onore della Dea fu chiamata Atene e così nacque un albero veramente mitico!
Ma adesso andiamo alle origini dell’ulivo in Italia e soprattutto in Sicilia. Ritorniamo alla mitologia, c’era un’altro figlio d’arte, Aristeo (il padre era Apollo e la madre Cirene), che in gioventù aveva imparato come fare la guerra ma anche l’agricoltura e la pastorizia. Per nostra fortuna scelse la strada più pacifica e insegnò ai Greci l’arte di estrarre l’olio. Attratto dalla bella Sicilia, vi si recò e introdusse la coltivazione dell’ulivo e l’uso del “trappeto” (antesignano del frantoio, in Sicilia c’è un paese che ne prende il nome), ogni tanto anche gli dei ne facevano una buona.
Furono forse i Fenici a diffondere l’ulivo nel resto d’Italia, dove i primi coltivatori furono gli Etruschi e poi i Romani.
I siciliani si distinsero subito nella salamoia (per questo non potevo tirarmi indietro dal farla).
I sicelioti erano così devoti all’ulivo che esiliavano chi osasse sradicarne un solo albero.
E mi sembra quasi ovvio dire che furono poi gli arabi a consolidare la coltivazione dell’ulivo in Sicilia, alcuni termini legati ai suoi frutti derivano infatti dall’arabo, come la “giara”, che è il vaso contenente l’olio, da cui prese il nome una celebre novella Pirandello, la “burnia” (vaso per contenere le olive), il “cafisi” (unità di misura dell’olio, oltre che il soprannome di un anziano venditore di olio di un centro marittimo in provincia di Palermo. Ed io che credevo fosse il suo cognome...).
Ci sarebbero moltissime altre informazioni da dare, ma concludo qui, con una piccola nota. A Palermo (devo dire che non so nel resto d’Italia) le olive vengono distinte in bianche e nere, non siamo daltonici, è un modo di dire, se vi offrono le olive bianche state certi, si tratta di olive verdi!
E ora finalmente la mia salamoia. Dopo informazioni in famiglia ed infinite ricerche su google, è così che ho fatto. Prima ho lavato tutte le olive in mio possesso separandole in diverse bacinelle tra verdi e nere. Le ho lasciate in ammollo per un giorno intero. Poi le ho asciugate ed ho eliminato quelle rovinate o contenenti un vermetto traditore.
Olive verdi schiacciate in salamoia:
Dopo averle lavate e asciugate, mi sono divertita a colpirle una per una con un martello (stando attenta a non rompere il nocciolo), attività che necessita di pazienza, ma che ha un effetto liberatorio e antistress. Le ho messe in un recipiente e coperte di acqua (ho posto sopra un piatto “galleggiante” per far in modo che nessuna stesse fuori dall’acqua, ho letto che si rovinerebbero. Si potrebbe anche usare un panno, ma visto che aggiungo l’ammorbidente in lavatrice, non volevo dare alle olive un effetto troppo soft). Le ho lasciate così per 3 giorni, cambiando l’acqua tutti i giorni (usciva di colore marrone). Il 4° giorno ho fatto la salamoia con 80 gr. di sale per ogni litro di acqua, più precisamente ho messo l’acqua a bollire, ho spento il fuoco e aggiunto il sale. Quando si è raffreddata ho messo le olive in un barattolone a chiusura ermetica (dopo un po’ di ricerche per acquistarlo) e le ho coperte con la salamoia ormai fredda (dimenticavo, ci vuole un litro d’acqua per ogni chilo di olive). Nel barattolo ho aggiunto uno spicchio d’aglio (con buccia) ed ho ricoperto il tutto con foglie d’alloro (sempre per non far stare le olive fuori dall’acqua). Per verificare il risultato finale bisognerà aspettare quindici giorni, dopo potranno essere consumate, condite a piacimento (a me piacciono con olio, aceto, aglio, sedano e origano). In salamoia sopravvivono per almeno tre mesi.
Olive nere in salamoia:
Dopo averle lavate le ho incise con un coltello (si può fare anche un buco con uno stuzzicadenti) e messe a bagno (come sopra ) per 4 giorni cambiando giornalmente l’acqua (in questo caso violacea). Al quarto giorno le ho sciacquate, scolate e messe in un vaso alternandole a strati di sale. Le ho lasciate così per 24 ore. Il giorno successivo ho aggiunto l’acqua (sempre un litro per ogni chilo di olive). E per ora è qui che sono arrivata. Bisogna lasciarle così per un mese e mezzo, e successivamente travasarle in altri vasi dopo averle scolate e aggiunto una salamoia fatta sempre facendo bollire l’acqua ed in questo caso mettendo 20 gr di sale per ogni litro. Possono resistere in questa salamoia per circa un anno.
Olive nere sotto sale (passuluna):
Dopo aver lavato le olive e averle ben asciugate, bisogna metterle in un colapasta con abbondante sale, scuoterle giornalmente e ogni tre giorni circa aggiungere altro sale. Dopo 15 giorni dovrebbero essere pronte, si può quindi prendere la quantità necessaria e sciacquarla con acqua o meglio con aceto e condirle con olio e rosmarino). In questo caso la durata è di circa 15 giorni (da quando sono pronte). Se invece del colapasta si usa un barattolo, bisogna star attenti ad eliminare il liquido che si produce (ma nel mio caso, non so perchè, non esce nemmeno una goccia di liquido).
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venerdì 6 novembre 2009
Le olive. La raccolta.
Qualche giorno fa ho raccolto le olive. Una splendida giornata soleggiata, un pranzetto a base di panini imbottiti e sfincionello. E poi la raccolta. Avevamo a disposizione solo tre alberelli, tre ulivi giovani, hanno circa venti anni. Nel giardino di mia nonna li ho visti crescere, e mai avrei immaginato che potessero diventare così belli e fruttuosi.
I tronchi nodosi che si abbracciavano tra loro, il colore simile a cenere argentata delle foglie e dei rami si mischiava al violaceo intenso ed al verde scintillante dei frutti che pendevano dando un senso di abbondanza. Il terreno umido coperto purtroppo da un tappeto di olive cadute da poco. Non hanno atteso l’arrivo di chi voleva raccoglierle, la natura non può essere controllata, ha i suoi tempi, siamo noi umani a doverci adattare.
Tre soli alberi, se pur così carichi non sono sufficienti per produrre l’olio, perchè i costi del frantoio sarebbero troppo alti e non converrebbe.
Poi bisogna andare dal “frantoio di fiducia”, perchè se non si conosce bene l’olio, è possibile che ti rifilino un prodotto un po’ “tarocco” e considerando che non si tratta di arance... A volte l’olio può essere “immischiato”, ovvero olio nuovo unito a quello dell’anno precedente, col rischio che sia rancido... L’olio appena uscito dal frantoio, deve avere un colore verde intenso e deve essere torbido, non trasparente. Quando è trasparente è di certo dell’anno precedente. Poi basta metterne una goccia nel palmo di una mano e strofinarlo con l’altra mano. Se è tutto di olive ed è nuovo, si sentirà un odore intenso di oliva, semplice no? Ma spesso si prendono tante fregature.
Comunque a noi non conveniva farle macinare, la nostra “manodopera” (cioè noi, che poi eravamo in quattro, uno più acciaccato dell’altro, chi mal di schiena, chi mal di polso, insomma tra tutti non ne usciva fuori nemmeno uno buono, senza poi considerare la nostra sana, genetica e atavica “lagnusia”, pigrizia) era un po’ scarsa, il tempo a disposizione poco e a quel punto anche la pancia piena per il precedente pic-nic (a cui non potevamo di certo rinunciare!). Però perchè lasciar cadere tutti quei frutti tanto belli e gustosi? Abbiamo pensato di raccoglierne almeno un po’.
Le olive si raccolgono in diversi modi. C’è chi mette una rete per terra e con un bastone percuote i rami in modo che le olive cadano giù, questo metodo però rovina le olive e poi anche l’olio assume un sapore brutto. Un altro metodo è l’uso di una specie di pettine che carezza i rami, così le olive cadono sulla rete ma rimangono perfettamente integre. Il metodo che noi abbiamo usato è il meno logico, quello tipico da “disorganizzati”, pur possedendo reti e pettinino, avevamo dimenticato tutto, e così le abbiamo raccolte “una per una”, per fortuna i nostri ulivi sono piccoli di statura, ma io sono molto più piccola di loro, così in punta di piedi mi aggrappavo ai rami ed acchiappavo le olive più belle e le mettevo in una “bagnina” (bacinella).
Non pensavo fosse così divertente, rilassante, gratificante. Non riuscivo a stancarmi tanto era piacevole. In un’ora e mezza ne avrò raccolti almeno sette chili, il totale del bottino, quindici chili di olive, tra verdi e nere.
Cosa farne? L’olio impossibile, troppo poche, la scelta è stata semplice. LA SALAMOIA. Ed è stato solo lì che ho pensato “ma chi me l’ha fatto fare?”. Insomma il risultato è che togliendo quelle che abbiamo regalato, avremo olive per tutto l’anno, sperando almeno che la nostra salamoia funzioni...
Nel prossimo post cenni storici e mitologici legati alle olive e la mia salamoia.
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domenica 1 novembre 2009
La "Festa dei Morti" e la Frutta Martorana
Non mi rassegno alla festa di Halloween.
Bisogna considerare che nella maggior parte delle famiglie non si usava scambiarsi i regali nè per il Natale, nè tanto meno per i compleanni, le famiglie erano infatti più numerose e le occasioni per accontentare i piccoli di casa venivano ridotte, oggi invece che c’è al massimo un bambino per famiglia, ogni occasione è buona per comprare un giocattolo (magari una play station che serve più per accontentare i papà che i bambini).
Tanti anni fa a Palermo si regalava un giocattolo ai figli solo per la Festa dei morti, e veniva fatto trovare ai bambini la mattina del due novembre, dicendo che a portarlo erano stati i parenti(nonni, zii etc) morti.
Era un modo per sentire più vicini e sempre presenti i propri cari scomparsi, un modo per sdrammatizzare ed esorcizzare la morte (e su questo qui siamo maestri, viste le processioni di intere famiglie, figli compresi, alle catacombe dei cappuccini, dove sono esposti dei morti imbalsamati e ben abbigliati). E’ una tradizione antica che risaliva a prima del cattolicesimo, erano ataviche e pagane ritualità che servivano a ingraziarsi le anime dei defunti.
Era anche un modo per tenere a bada i bambini durante tutto l’anno, perchè se era vero che i morti portassero i regali, poteva pur capitare, ai piccoli più dispettosi, che i morti avessero anche la geniale idea di grattare loro i piedi durante la notte...altro che streghe di halloween!
Durante quella notte era d’uso esporre a tavola un “cannistro” (cesto) colmo di dolcetti (tetù e catalano, taralli, ossa di morto, reginelle etc) frutta martorana, e pupacciene (pupi di zucchero), era come un’offerta e una richiesta di benevolenza ai morti.
All’epoca i bambini erano molto più ingenui che oggi, i regali potevano essere anche riciclati, oppure erano le così dette “cose utili” tipo maglie di lana, pantofole e pigiamini ed erano sempre ben accetti, sempre meglio della gratta notturna ai piedi. Oggi ci sono le richieste più svariate, ed è impossibile che i bambini possano realmente credere che siano i morti a portare i regali, visti i tanti negozi e bancarelle di giocattoli di cui si riempie la città, sempre che non immaginino delle anime vagare con carta di credito in mano per comprare gormiti, barby, winks, e macchinine, ma i bimbi sono per fortuna più furbi dei grandi e li prendono in giro facendo finta di credere a queste storie!
Il dolce in assoluto più tipico per la festa dei morti, è la frutta martorana, dei frutti fatti di pasta di mandorle, con l’ausilio di splendide formine di gesso,
Ora come già detto, le suore in fatto di invenzioni gastronomiche erano proprio delle vere dee (e non per essere troppo dissacratrice), la leggenda dice che nel 1308 aspettavano un ospite importante, niente meno che il Papa (allora era Clemente V). Per rendere gradevole il proprio monastero, decisero di sostituire i frutti raccolti dal loro giardino con nuovi frutti fatti di pasta di mandorle, e presentarono alla proprio desco degli alberi finti con frutta che da allora fu chiamata frutta martorana.
In seguito questi frutti furono riprodotti dai migliori pasticceri della città e regalati per la commemorazione dei Morti. Dei veri gioielli dal gusto raffinato e dall’estetica davvero realistica e fantastica. Oggi oltre che la frutta vengono anche riprodotte altre form,e anche divertenti come i piccoli panini con la milza.
Ora, con una tradizione così, è mai possibile apprezzare Halloween?
Fare la pasta di mandorle non è molto difficile, ci vuole solo un pò di pazienza e tanta creatività. A Palermo c’è un negozio che si chiama Nuccio e che vende tutto l’occorrente, dalla farina di mandorle alle forme, colori, decorazioni. Buon divertimento!
Frutta Martorana:
Prima di dipingere la frutta con colori vegetali sciolti in poca acqua, far asciugare bene i frutti (1, 2 giorni). Dopo aver dipinto, far asciugare e poi verniciare con appositi prodotti lucidanti per alimenti.
Allora ancora quest’anno racconterò la tradizionale "Festa dei morti" che si svolge a Palermo.
Tanti anni fa questo giorno era un momento molto importante, soprattutto per i bambini, perchè era il giorno in cui “arrivavano” finalmente i tanto attesi regali.
Tanti anni fa questo giorno era un momento molto importante, soprattutto per i bambini, perchè era il giorno in cui “arrivavano” finalmente i tanto attesi regali.
Bisogna considerare che nella maggior parte delle famiglie non si usava scambiarsi i regali nè per il Natale, nè tanto meno per i compleanni, le famiglie erano infatti più numerose e le occasioni per accontentare i piccoli di casa venivano ridotte, oggi invece che c’è al massimo un bambino per famiglia, ogni occasione è buona per comprare un giocattolo (magari una play station che serve più per accontentare i papà che i bambini).
Tanti anni fa a Palermo si regalava un giocattolo ai figli solo per la Festa dei morti, e veniva fatto trovare ai bambini la mattina del due novembre, dicendo che a portarlo erano stati i parenti(nonni, zii etc) morti.
Era un modo per sentire più vicini e sempre presenti i propri cari scomparsi, un modo per sdrammatizzare ed esorcizzare la morte (e su questo qui siamo maestri, viste le processioni di intere famiglie, figli compresi, alle catacombe dei cappuccini, dove sono esposti dei morti imbalsamati e ben abbigliati). E’ una tradizione antica che risaliva a prima del cattolicesimo, erano ataviche e pagane ritualità che servivano a ingraziarsi le anime dei defunti.
Era anche un modo per tenere a bada i bambini durante tutto l’anno, perchè se era vero che i morti portassero i regali, poteva pur capitare, ai piccoli più dispettosi, che i morti avessero anche la geniale idea di grattare loro i piedi durante la notte...altro che streghe di halloween!
Durante quella notte era d’uso esporre a tavola un “cannistro” (cesto) colmo di dolcetti (tetù e catalano, taralli, ossa di morto, reginelle etc) frutta martorana, e pupacciene (pupi di zucchero), era come un’offerta e una richiesta di benevolenza ai morti.
All’epoca i bambini erano molto più ingenui che oggi, i regali potevano essere anche riciclati, oppure erano le così dette “cose utili” tipo maglie di lana, pantofole e pigiamini ed erano sempre ben accetti, sempre meglio della gratta notturna ai piedi. Oggi ci sono le richieste più svariate, ed è impossibile che i bambini possano realmente credere che siano i morti a portare i regali, visti i tanti negozi e bancarelle di giocattoli di cui si riempie la città, sempre che non immaginino delle anime vagare con carta di credito in mano per comprare gormiti, barby, winks, e macchinine, ma i bimbi sono per fortuna più furbi dei grandi e li prendono in giro facendo finta di credere a queste storie!
Il dolce in assoluto più tipico per la festa dei morti, è la frutta martorana, dei frutti fatti di pasta di mandorle, con l’ausilio di splendide formine di gesso,
e dipinti a mano con colori di origine vegetale.
La pasta di mandorle viene chiamata anche marzapane, pasta reale e martorana.
Il termine marzapane, deriva dalla parola araba “manthàban”, il contenitore per un pane fatto a base di mandorle e zucchero.
Ma qui il marzapane viene anche chiamato pasta reale. Si dice che questo attributo risalga ad un episodio capitato a Ferdinando re delle due sicilie, al quale sarebbero stati offerti i deliziosi dolcetti che il sovrano avrà di certo apprezzato, da qui l’idea di considerare quella pasta adatta ai “reali”.
Ma siccome a Palermo non ci facciamo mancare nulla in fatto di tradizioni, ecco che la pasta di mandorle ha anche un altro appellativo, il più famoso, ovvero Martorana.
La Martorana è una chiesa molto importante di Palermo, che si chiamava anche Santa Maria dell’Ammiraglio, proprio perchè l’aveva fatta costruire l’Ammiraglio Giorgio d’Antiochia. Una nobildonna Eloisa di Martorana, fece poi costruire un monastero vicino alla chiesa, da allora tutto il complesso fu nominato Martorana ( e l’ammiraglio cadde nel dimenticatoio).
Il termine marzapane, deriva dalla parola araba “manthàban”, il contenitore per un pane fatto a base di mandorle e zucchero.
Ma qui il marzapane viene anche chiamato pasta reale. Si dice che questo attributo risalga ad un episodio capitato a Ferdinando re delle due sicilie, al quale sarebbero stati offerti i deliziosi dolcetti che il sovrano avrà di certo apprezzato, da qui l’idea di considerare quella pasta adatta ai “reali”.
Ma siccome a Palermo non ci facciamo mancare nulla in fatto di tradizioni, ecco che la pasta di mandorle ha anche un altro appellativo, il più famoso, ovvero Martorana.
La Martorana è una chiesa molto importante di Palermo, che si chiamava anche Santa Maria dell’Ammiraglio, proprio perchè l’aveva fatta costruire l’Ammiraglio Giorgio d’Antiochia. Una nobildonna Eloisa di Martorana, fece poi costruire un monastero vicino alla chiesa, da allora tutto il complesso fu nominato Martorana ( e l’ammiraglio cadde nel dimenticatoio).
Ora come già detto, le suore in fatto di invenzioni gastronomiche erano proprio delle vere dee (e non per essere troppo dissacratrice), la leggenda dice che nel 1308 aspettavano un ospite importante, niente meno che il Papa (allora era Clemente V). Per rendere gradevole il proprio monastero, decisero di sostituire i frutti raccolti dal loro giardino con nuovi frutti fatti di pasta di mandorle, e presentarono alla proprio desco degli alberi finti con frutta che da allora fu chiamata frutta martorana.
In seguito questi frutti furono riprodotti dai migliori pasticceri della città e regalati per la commemorazione dei Morti. Dei veri gioielli dal gusto raffinato e dall’estetica davvero realistica e fantastica. Oggi oltre che la frutta vengono anche riprodotte altre form,e anche divertenti come i piccoli panini con la milza.
Ora, con una tradizione così, è mai possibile apprezzare Halloween?
Fare la pasta di mandorle non è molto difficile, ci vuole solo un pò di pazienza e tanta creatività. A Palermo c’è un negozio che si chiama Nuccio e che vende tutto l’occorrente, dalla farina di mandorle alle forme, colori, decorazioni. Buon divertimento!
Frutta Martorana:
Ingredienti
500gr di farina di mandorle
250gr di zucchero a velo
acqua quanto basta.
una goccia di essenza di mandorla amara
500gr di farina di mandorle
250gr di zucchero a velo
acqua quanto basta.
una goccia di essenza di mandorla amara
Preparazione
Impastare tutti gli ingredienti aggiungendo l’acqua poco alla volta, fino ad ottenere una pasta compatta e liscia. C’è anche chi fa sciogliere in precedenza lo zucchero in acqua bollente, ma usando lo zucchero a velo, questa operazione non risulta necessaria e la lavorazione sarà molto più semplice e veloce.
Procedere alla realizzazione dei frutti coprendo le formine con pellicola trasparente, pressando la pasta nelle formine e togliendo la parte in eccesso.
Procedere alla realizzazione dei frutti coprendo le formine con pellicola trasparente, pressando la pasta nelle formine e togliendo la parte in eccesso.
Prima di dipingere la frutta con colori vegetali sciolti in poca acqua, far asciugare bene i frutti (1, 2 giorni). Dopo aver dipinto, far asciugare e poi verniciare con appositi prodotti lucidanti per alimenti.
Foto Judy Witts
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Pasta Reale
martedì 27 ottobre 2009
U Putiaru (fruttivendolo), le sue stranezze e l’insalata vastasa con patate vugghiute e cipolle infornate
A Palermo sopravvivono ancora tanti strani mestieri, ma alcuni che sembrerebbero più usuali conservano in sé delle piccole particolarità.
Il mestiere di cui parlerò adesso è il fruttivendolo, qui detto “putiaru”, ambulante o statico che sia.
foto Judy Witts
Ognuno a Palermo ha il proprio fruttivendolo “parruccianu”, ovvero fruttivendolo di fiducia.
La parola parruccianu credo derivi da parrocchiano, un paragone ardito che sta ad indicare un negoziante dal quale vai almeno una volta la settimana, quello con il quale puoi confidarti, quello che ti da ottimi consigli, quello che non ti fregherebbe mai.
Ciò che ti offre non è un supporto spirituale, ma di tanto in tanto ti risolleva l’animo, sempre che, nel caso si tratti di un fruttivendolo, non ci si concentri sul salasso rappresentato dal conto finale, spesso molto salato, visti i tempi che corrono.
Il putiaro parrucciano si giustifica dicendo ai suoi parrucciani (anche i clienti prendono questo nome) che lui tratta solo i prodotti migliori, quelli “freschi”, quelli “buoni”, quelli raccolti nelle vicine campagne, soltanto la frutta che magari ha il verme dentro ma che è dolcissima, la sua anguria sarà di certo matura, ed i carciofi esclusivamente di Cerda, l’aglio non è mai cinese, etc. E così tutto soddisfatto il cliente torna a casa con lo stipendio dimezzato.
foto Judy Witts
Alcuni fruttivendoli vengono definiti “giovenco”. Sono quelli costosissimi, che vendono le primizie, anche se ormai è difficile riconoscerle e trovarle, perchè tutti i tipi di frutta e ortaggi si trovano in ogni periodo dell’anno. Ma quando non era ancora così, c’erano dei fruttivendoli specializzati nel vendere i primi frutti di stagione, che erano molto desiderati ed attesi e quindi costavano tantissimo.
Mi domandavo l’origine del termine giovenco (usato dai meno giovani), alla fine ho scoperto che Giovenco era il cognome di un fruttivendolo che si trovava tanti anni fa al centro di Palermo (oggi rimane solo l’insegna), che era appunto tra i più cari e tra i più forniti di primizie.
Quando a Palermo si va dal fruttivendolo, soprattutto nei mercati, e magari non dal proprio parrucciano, ma da uno sconosciuto, c’è da affrontare un dilemma.
“Si può scegliere ciò che si desidera, e ancora di più si può toccare la merce?” . E’ pur vero che esistono clienti molto esigenti, che non chiedono semplicemente la merce che desiderano, ma guardano con perizia le cassette e segnano con convinzione al fruttivendolo ogni singolo pomodoro, mela, carciofo etc, perchè scelgono “a simpatia”. Ma ancora di più ci sono clienti che per acquistare devono necessariamente fare il “test tattile”, ovvero toccare con mano frutta e ortaggi per valutarne scientificamente la giusta maturazione.
Dinanzi a queste azioni ci sono differenti reazioni.
Si può incontrare il fruttivendolo tollerante che dice: “signura sa scigghissi lei” (signora la scelga da sé, così è più contenta), ma si può rischiare di incappare in quello che reagisce con vera ira, perchè se c’è una cosa che i fruttivendoli proprio non sopportano è l’aver palpata la propria frutta dai clienti occasionali, quelli che ti rovinano la merce ammaccandola tutta e magari alla fine se ne vanno senza comprare nulla. A chi invece indica la frutta senza toccarla, magari è capitato che rispondano: “se vuoli chidda, s’avi a pigghiari puri chista e chista” (se vuole quella da lei prescelta, ora deve comprare anche l’altra che io le impongo). Ciò avviene perchè il fruttivendolo generalmente quando prepara il “coppo” (involucro di carta avvolto a forma di cono utile a contenere frutta), veloce come un prestigiatore prende alcuni frutti dal fondo della cassetta, quelli meno buoni, “purriti” (marci) e brutti, e li nasconde sotto altri frutti bellissimi esteticamente e buoni, che preleva dalla parte più esposta della cassetta.
Se quindi si ha l’ardire di sconvolgere questa pratica, e di rovinargli l’affare, lui potrebbe adirarsi tantissimo ed importi a quel punto la sua volontà, e se capita un fruttivendolo robusto non si ha altra scelta, se non dileguarsi in fretta.
Foto Jan-Luc Moreau
Per tutti questi motivi è preferibile avere il putiaru parucciano, così non servirà nemmeno scegliere, perchè sarà lui ad offrire solo i prodotti migliori, e lo si rende felicissimo con poche frasi tipo “ me la scelga lei che è un esperto” oppure “io mi fido solo di lei che mi da sempre roba buona”.
Il fruttivendolo dei mercati “abbannia” la sua merce, la pubblicizza con slogan, chiama le signore attribuendo nomi inventati tipo “signora Maria”, invitandole a “taistare” (assaggiare) un frutto per testarne la bontà, ripete litanie e cantilene, urla e allunga tutte le vocali delle parole tipo “accaaattaaativiii iii paataaatiii” (comprate le patate), oppuure “a voooliii unaa trizzaaa r’agghiiiaaaa” (vuole una treccia d’aglio) etc. Questo rende ancora più belli e caratteristici i nostri mercati. Ma questo aspetto merita un post a parte.
foto Judy Witts
Ma un’altra cosa molto caratteristica dei fruttivendoli palermitani è il loro fast food. Nel pomeriggio infatti è possibile, che nelle putie (negozi) di frutta e verdura, appaiano dei grossi pentoloni di rame o di stagno fumanti, che contengono ortaggi vugghiuti (bolliti), come le patate, la fagiolina (fagiolini), i carciofini domestici, lasciati ammollo a tanta acqua calda. Sono spesso anche esposte delle teglie da fornaio dove sono disposte ordinatamente le cipolle infornate o i peperoni.
foto Judy Witts
Per i palermitani è immancabile andare dal fruttivendolo e ritirarsi senza le proprie patate vugghiute e cipolle infornate. Sono necessarie per fare una bellissima insalata vastasa (volgare, grezza), contorno apprezzatissimo per ogni cena in famiglia.
Bisogna dire che le patate vugghiute del putiaro hanno un sapore del tutto diverso da quelle fatte in casa, sono buonissime, profumate, la cottura è perfetta, a volte i veri palermitani doc non riescono a tornare a casa senza averne addentata una per strada. Qual’è il segreto? Ho chiesto al mio parrucciano e mi ha risposto che a parte il pentolone stagnato, il vero segreto è la quantità di patate che si fanno bollire e “udite udite”, l’acqua sporca (per la gran mole di patate coperte di terra). Da noi non esistono tabù sull’igiene, è il venditore stesso ad ammetterlo con orgoglio!
foto Judy Witts
Ecco la semplicissima ricetta dell’insalata “vastasa” alla palermitana: patate vugghiute (pelate e tagliate a pezzi), cipolla infornata (precedentemente sbucciata ed affettata grossolanamente), pomodori rossi tagliati a spicchi, fagiolini vugghiuti, olive verdi o nere, olio extravergine d’oliva (abbondante), aceto, sale e pepe. E’ una vera goduria, velocissima da preparare quando sono ormai le otto di sera e non si hanno ancora idee per la cena.. Certo il risultato è ideale se i componenti sono quelli comprati già cotti dal fruttivendolo, in mancanza, si potranno preparare in casa, e se ci vuole troppo tempo per fare le cipolle infornate, si potranno usare crude, magari dopo averle spremute col sale e sciacquate, per renderle più digeribili.
Le patate vugghiute, se si volesse rinunciare all’insalata, sono ottime anche “a stricasale”, pelate e semplicemente intinte in un po’ di sale, adatte per l’ipertensione...
p.s. Un saluto a Fabio, il nostro parrucciano grazie al quale adesso mangiamo molta più frutta!
Il mestiere di cui parlerò adesso è il fruttivendolo, qui detto “putiaru”, ambulante o statico che sia.
foto Judy Witts
Ognuno a Palermo ha il proprio fruttivendolo “parruccianu”, ovvero fruttivendolo di fiducia.
La parola parruccianu credo derivi da parrocchiano, un paragone ardito che sta ad indicare un negoziante dal quale vai almeno una volta la settimana, quello con il quale puoi confidarti, quello che ti da ottimi consigli, quello che non ti fregherebbe mai.
Ciò che ti offre non è un supporto spirituale, ma di tanto in tanto ti risolleva l’animo, sempre che, nel caso si tratti di un fruttivendolo, non ci si concentri sul salasso rappresentato dal conto finale, spesso molto salato, visti i tempi che corrono.
Il putiaro parrucciano si giustifica dicendo ai suoi parrucciani (anche i clienti prendono questo nome) che lui tratta solo i prodotti migliori, quelli “freschi”, quelli “buoni”, quelli raccolti nelle vicine campagne, soltanto la frutta che magari ha il verme dentro ma che è dolcissima, la sua anguria sarà di certo matura, ed i carciofi esclusivamente di Cerda, l’aglio non è mai cinese, etc. E così tutto soddisfatto il cliente torna a casa con lo stipendio dimezzato.
foto Judy Witts
Alcuni fruttivendoli vengono definiti “giovenco”. Sono quelli costosissimi, che vendono le primizie, anche se ormai è difficile riconoscerle e trovarle, perchè tutti i tipi di frutta e ortaggi si trovano in ogni periodo dell’anno. Ma quando non era ancora così, c’erano dei fruttivendoli specializzati nel vendere i primi frutti di stagione, che erano molto desiderati ed attesi e quindi costavano tantissimo.
Mi domandavo l’origine del termine giovenco (usato dai meno giovani), alla fine ho scoperto che Giovenco era il cognome di un fruttivendolo che si trovava tanti anni fa al centro di Palermo (oggi rimane solo l’insegna), che era appunto tra i più cari e tra i più forniti di primizie.
Quando a Palermo si va dal fruttivendolo, soprattutto nei mercati, e magari non dal proprio parrucciano, ma da uno sconosciuto, c’è da affrontare un dilemma.
“Si può scegliere ciò che si desidera, e ancora di più si può toccare la merce?” . E’ pur vero che esistono clienti molto esigenti, che non chiedono semplicemente la merce che desiderano, ma guardano con perizia le cassette e segnano con convinzione al fruttivendolo ogni singolo pomodoro, mela, carciofo etc, perchè scelgono “a simpatia”. Ma ancora di più ci sono clienti che per acquistare devono necessariamente fare il “test tattile”, ovvero toccare con mano frutta e ortaggi per valutarne scientificamente la giusta maturazione.
Dinanzi a queste azioni ci sono differenti reazioni.
Si può incontrare il fruttivendolo tollerante che dice: “signura sa scigghissi lei” (signora la scelga da sé, così è più contenta), ma si può rischiare di incappare in quello che reagisce con vera ira, perchè se c’è una cosa che i fruttivendoli proprio non sopportano è l’aver palpata la propria frutta dai clienti occasionali, quelli che ti rovinano la merce ammaccandola tutta e magari alla fine se ne vanno senza comprare nulla. A chi invece indica la frutta senza toccarla, magari è capitato che rispondano: “se vuoli chidda, s’avi a pigghiari puri chista e chista” (se vuole quella da lei prescelta, ora deve comprare anche l’altra che io le impongo). Ciò avviene perchè il fruttivendolo generalmente quando prepara il “coppo” (involucro di carta avvolto a forma di cono utile a contenere frutta), veloce come un prestigiatore prende alcuni frutti dal fondo della cassetta, quelli meno buoni, “purriti” (marci) e brutti, e li nasconde sotto altri frutti bellissimi esteticamente e buoni, che preleva dalla parte più esposta della cassetta.
Se quindi si ha l’ardire di sconvolgere questa pratica, e di rovinargli l’affare, lui potrebbe adirarsi tantissimo ed importi a quel punto la sua volontà, e se capita un fruttivendolo robusto non si ha altra scelta, se non dileguarsi in fretta.
Foto Jan-Luc Moreau
Per tutti questi motivi è preferibile avere il putiaru parucciano, così non servirà nemmeno scegliere, perchè sarà lui ad offrire solo i prodotti migliori, e lo si rende felicissimo con poche frasi tipo “ me la scelga lei che è un esperto” oppure “io mi fido solo di lei che mi da sempre roba buona”.
Il fruttivendolo dei mercati “abbannia” la sua merce, la pubblicizza con slogan, chiama le signore attribuendo nomi inventati tipo “signora Maria”, invitandole a “taistare” (assaggiare) un frutto per testarne la bontà, ripete litanie e cantilene, urla e allunga tutte le vocali delle parole tipo “accaaattaaativiii iii paataaatiii” (comprate le patate), oppuure “a voooliii unaa trizzaaa r’agghiiiaaaa” (vuole una treccia d’aglio) etc. Questo rende ancora più belli e caratteristici i nostri mercati. Ma questo aspetto merita un post a parte.
foto Judy Witts
Ma un’altra cosa molto caratteristica dei fruttivendoli palermitani è il loro fast food. Nel pomeriggio infatti è possibile, che nelle putie (negozi) di frutta e verdura, appaiano dei grossi pentoloni di rame o di stagno fumanti, che contengono ortaggi vugghiuti (bolliti), come le patate, la fagiolina (fagiolini), i carciofini domestici, lasciati ammollo a tanta acqua calda. Sono spesso anche esposte delle teglie da fornaio dove sono disposte ordinatamente le cipolle infornate o i peperoni.
foto Judy Witts
Per i palermitani è immancabile andare dal fruttivendolo e ritirarsi senza le proprie patate vugghiute e cipolle infornate. Sono necessarie per fare una bellissima insalata vastasa (volgare, grezza), contorno apprezzatissimo per ogni cena in famiglia.
Bisogna dire che le patate vugghiute del putiaro hanno un sapore del tutto diverso da quelle fatte in casa, sono buonissime, profumate, la cottura è perfetta, a volte i veri palermitani doc non riescono a tornare a casa senza averne addentata una per strada. Qual’è il segreto? Ho chiesto al mio parrucciano e mi ha risposto che a parte il pentolone stagnato, il vero segreto è la quantità di patate che si fanno bollire e “udite udite”, l’acqua sporca (per la gran mole di patate coperte di terra). Da noi non esistono tabù sull’igiene, è il venditore stesso ad ammetterlo con orgoglio!
foto Judy Witts
Ecco la semplicissima ricetta dell’insalata “vastasa” alla palermitana: patate vugghiute (pelate e tagliate a pezzi), cipolla infornata (precedentemente sbucciata ed affettata grossolanamente), pomodori rossi tagliati a spicchi, fagiolini vugghiuti, olive verdi o nere, olio extravergine d’oliva (abbondante), aceto, sale e pepe. E’ una vera goduria, velocissima da preparare quando sono ormai le otto di sera e non si hanno ancora idee per la cena.. Certo il risultato è ideale se i componenti sono quelli comprati già cotti dal fruttivendolo, in mancanza, si potranno preparare in casa, e se ci vuole troppo tempo per fare le cipolle infornate, si potranno usare crude, magari dopo averle spremute col sale e sciacquate, per renderle più digeribili.
Le patate vugghiute, se si volesse rinunciare all’insalata, sono ottime anche “a stricasale”, pelate e semplicemente intinte in un po’ di sale, adatte per l’ipertensione...
p.s. Un saluto a Fabio, il nostro parrucciano grazie al quale adesso mangiamo molta più frutta!
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