martedì 26 ottobre 2010

Isola delle femmine, tra leggende e misteri.

Isola delle femmine è il nome di un paese in provincia di Palermo, ma anche il nome dell’isoletta che vi si trova di fronte.



Osservare quell’isola tanto vicina alla costa, galleggiante sul mare, disabitata, quasi arida, scontrosa ma dolce, piccola e grande, rappresenta un panorama riconciliante, stranamente rasserenante. La sua vista fa anche scordare il punto di osservazione più vicino, un po’ squallido, uno slargo in una strada delimitata da un muretto tutto rotto e coperto da scritte, circondato da case rovinate dalla salsedine, da sporcizia... un senso di desolazione, una sorta di nulla che tale sarebbe se non ci fosse quella vista.



Ed io, caso vuole, nei momenti più tristi o in quelli più felici mi ritrovo sempre lì, in quel posto assurdo dove però c’è quell’isola così vicina che sembra quasi di poterla toccare.



Un alone di mistero circonda questa isola deserta, abitata solo da gabbiani, topi e conigli, e la cui unica costruzione è una torre in rovina. E l’arcano è dato dal suo nome “delle femmine” che ha ispirato molte leggende. Tutto ruota attorno a quell’unica costruzione che nell’immaginario rievoca le torri delle fiabe dove venivano rinchiuse le fanciulle che dovevano essere liberate da un prode cavaliere.

Isola delle femmine vista da Barcarello

La prima leggenda ipotizza che in quell’isola esistesse un carcere per donne. Certo panoramico... ma alquanto inquietante, Non sono però mai stati trovati resti di vita carceraria (per fortuna direi!).

Isola delle femmine vistada Capo Gallo

La seconda leggenda narra la storia di una donna che ebbe la sfortuna di essere “notata” da un Conte di Capaci. L’uomo (una sorta di stalker dei tempi antichi) non ricambiato e geloso, la rinchiuse nella torre per averla solo per sé. La fanciulla si gettò sugli scogli per sfuggire a quel triste ed oppressivo destino.

La terza leggenda vede ancora l’isola come luogo di isolamento per donne, in questo caso le sfortunate sarebbero state 13 donne turche, accusate di ipotetiche colpe, furono abbandonate in mare dai loro mariti, su una barca che vagò in balia delle intemperie fino a naufragare nell’isoletta dove vissero per sette anni. Passato quel tempo furono ritrovate dai mariti successivamente pentitisi, che le portarono sulla terra ferma costruendo una cittadina a cui diedero il nome di Capaci (qua la pace) per sancire quella (direi tardiva) riconciliazione. Questa versione è secondo me altamente improbabile, considerando che dopo sette anni quelle donne avrebbero preferito rimanere sull’isola deserta piuttosto che tornare dai loro mariti (meglio sole che “malaccompagnate”) . Preferisco immaginarle mentre costruiscono da sole una bella zattera e si trasferiscono in terra ferma dove costruiscono la cittadina, si organizzano ed eventualmente conoscono dei pescatori del luogo.

porto di Isola delle femmine

Un’altra leggenda ancora più incredibile ed improbabile ritiene l'isola la residenza di bellissime donne che si offrivano in premio al vincitore della battaglia.

Isola delle femmine vista da Capo Gallo

Una testimonianza attribuisce invece il nome ad un generale bizantino governatore della provincia di Palermo chiamato Eufemio, da qui insula fimi (isola di Eufemio).

E dopo tutte le leggende forse una verità, il nome probabilmente nulla ha a che fare con le femmine nè con Eufemio, è più probabile che il termine femmine fosse una derivazione dal dialettale fimmini che derivava dalla parola araba fim che significava bocca o imboccatura e stava ad indicare il canale esistente tra l’isola e la terraferma. I primi resti rinvenuti risalgono ai punici, legati alla pesca del tonno.
La torre del XVI secolo sarebbe una delle tante torri di avvistamento nata per sconfiggere la pirateria e probabilmente divenuta rudere a causa dei bombardamenti degli Alleati durante la seconda guerra mondiale e per il totale abbandono.

Insomma il bell’isolotto è un luogo che andrebbe rivalutato e ristrutturato.

cittadina di Isola delle femmine in festa

E così fuori dalle leggende, dalle reclusioni e dai fantasiosi misteri, è bello guardare quell’isola, avendo magari in precedenza acquistato un panino con le panelle, preparato da un’anziana signora del paese nel suo piccolo negozietto (in via Roma), o una bella fetta di anguria in uno dei
chioschi sul porticciolo!
Perchè si sa, il mare apre l’appetito!

lunedì 18 ottobre 2010

I polipetti murati

C’è una ricetta buonissima e tipicamente palermitana che si prepara tra il mese di Agosto e quello di ottobre, un piatto particolarmente gustoso e profumato: i “purpicieddi murati” (polipetti murati).


Ho già descritto come il polpo per i palermitani sia un cibo mitico, soprattutto se mangiato già pronto in uno dei tanti chioschi della città o dei centri marittimi come Mondello o Sferracavallo, cotto alla perfezione dai purpari e condito con nulla o soltanto con una spruzzatina di limone, ma se i polpi sono piccoletti i palermitani non disdegneranno la particolare zuppa dei “polipetti murati”, dove poter inzuppare un filone intero di pane.

Bisogna però distinguere tra il polpo che viene mangiato semplicemente “vugghiutu” (bollito) ed i polipetti da “murare”, se nel primo caso infatti si usa il maiolino (non so se è un termine dialettale o meno, a voi lettori non siciliani svelare l’arcano), che si riconosce perchè ha in ogni tentacolo due file di ventose (parallele), nel caso dei polipetti murati si utilizzeranno prevalentemente i moscardini che hanno una sola fila di ventose, sono di colore bruno, e vengono anche chiamati “agostiniani”, probabilmente perchè il periodo migliore per pescarli della giusta taglia (piccola) è il mese di Agosto.

Ma cosa vorrà dire il termine “murati”’? C’è qualche significato nascosto e misterioso? Avrà a che fare con cemento e mattoni?
Niente di tutto ciò, si usa dire murati perchè il coperchio della pentola, per tutto il tempo della cottura non dovrà mai essere rimosso, cosa che per me è molto complessa perchè ho una piccola mania, quella di mescolare continuamente, ma necessaria in questo caso.
La pentola da usare deve essere capiente perchè i polipetti rilasciano una quantità impensabile di brodo e preferibilmente di terracotta, basta però ricordare che una volta utilizzata a questo fine, dovrà essere solo adoperata per cucinare piatti a base di pesce, l’odore rimane malgrado ogni tentativo provato per eliminarlo (anzi se qualcuno avesse dei consigli in merito...), però potrebbe rivelarsi una risorsa in momenti di crisi... se per esempio si vorrà fare un risotto ai frutti di mare, ma non si avessero a disposizione i frutti di mare... si potrebbe usare la pentola dei polipetti e l’aroma di pesce sarebbe assicurato, almeno spero!

Tornando al piatto di oggi, devo ammettere di non averlo mai preparato, è un piatto forte di mia madre e sua è la ricetta ed anche le foto, io come spesso capita mi dedico alla degustazione, un compito direi davvero faticoso!
Un’ ultima cosa prima di andare al sodo, visto che questa zuppa produce un sughetto favoloso ed anche abbondante, malgrado l’inzuppamento di infinita quantità di pane, ci sarà anche la possibilità di conservare parte della zuppa per condire una favolosa spaghettata.


Ricetta: “I polipetti murati”

Ingredienti: 1 kg di polipetti, 1 cipolla grossa, olio evo, prezzemolo, 400gr di polpa di pomodori pelati, una noce di burro, 1 bicchiere di vino bianco, sale e pepe.

Preparazione: pulire bene i polipetti togliendo occhi e becco. Affettare la cipolla e farla imbiondire con una noce di burro e dell’olio evo, aggiungere un bicchiere di vino e far evaporare. Versare il pomodoro pelato (a pezzi), prezzemolo, sale e pepe. Non appena bolle versare i polipetti e chiudere il coperchio, tenere la fiamma alta, appena dal rumore si percepisce che ribolle, aprire il coperchio e mescolare, a questo punto chiudere il coperchio e far cuocere a fuoco medio basso per 15 minuti circa, senza mai aprire ne mescolare.
Mangiare accompagnando con tanto pane!
Se dovesse rimanere del condimento, cucinare gli spaghetti, scolarli due minuti prima del tempo di cottura e far finire di cuocere nella zuppa, il risultato è assicurato!

venerdì 15 ottobre 2010

Pasta palina



A Palermo, come spesso capita, ogni piatto ha una particolare storia da raccontare, ed anche “a pasta palina” è completa di una sua narrazione del tutto originale.

Questo gustoso piatto dalle infinite varianti, è una delle più gustose cugine della più nota pasta con le sarde, infatti altro non è che una rivisitazione (in versione ancora più povera) di questa.

Chi fu l’ardito che si prese la briga di apporre delle modifiche al primo piatto più caratteristico di Palermo, inventato a suo tempo dal cuoco di un generale arabo sbarcato nella Conca D’oro?
La legenda dice che fu un frate sconosciuto appartenente all’ordine dei minimi (anche detti paolini o in dialetto “palini”) fondato da San Francesco di Paola.

Questi frati seguivano la regola della povertà ed il divieto assoluto di mangiare la carne e i suoi derivati, così dovettero arrangiarsi un po’, e se a Palermo nel bellissimo Monastero di San Francesco di Paola inventarono “a pasta palina”, un piatto povero dove di carne non c’è nemmeno l’ombra (va bene che i vegani più radicali mi potranno dire che c’è il pesce...), in Germania divennero ancora più noti producendo la birra “paulaner” (ed anche qui niente carne!).
Il monastero di San Francesco di Paola a Palermo è un luogo di culto molto bello,
sorge su quella che fu una piccola chiesa campestre dedicata alla martire palermitana S. Oliva, il cui corpo, secondo legenda, venne seppellito proprio sotto la chiesetta, appena fuori le mura della città. Successivamente la chiesetta di Sant’Oliva fu ceduta ai paolini che la spianarono e vi costruirono un monastero e una splendida Chiesa barocca con al suo interno opere pittoriche e sculture di grande valore.


Una curiosità: all’ordine dei paolini si ispirò forse anche il celebre gruppo (ancora oggi avvolto dal mistero) dei Beati Paoli, che dei frati copiarono l’abbigliamento. Riporta infatti il Pitrè, che i Beati Paoli presero questo nome perchè usavano travestirsi da monaci con un saio nero dotato di cappuccio, per passare inosservati durante il giorno, rifugiandosi nelle chiese della città fingendosi frati, e complottando la notte immersi nel buio.

E così, dai Frati Paolini ai Beti Paoli, arriviamo finalmente alla pasta palina, di cui esistono così tante versioni da non sapere più quale sia quella giusta. C’è chi toglie le sarde, chi il finocchietto selvatico, chi mette lo zafferano, chi la salsa di pomodoro. Il concetto è quello di rendere più povera la pasta con le sarde, ognuno fa poi come vuole.

Io mi limiterò alla versione che facciamo in famiglia (di generazione in generazione)!

Ingredienti (per due persone): 200 g di sarde fresche, 200 g di bucato, mezza cipolla grossa, 3 acciughe sott’olio, una manciata di uva passa e pinoli, una bustina di zafferano, olio, sale e pepe.
Premetto che anche nella mia versione ci sono due “sottoversioni”. Dipende se si hanno a disposizione le sarde. Se la risposta è affermativa, la ricetta è quella che tra poco scriverò, nel caso in cui le sarde saranno “fuiute”(scappate a mare), basterà non aggiungerle e magari abbondare un pochino con le acciughe sott’olio.

Preparazione: pulire bene le sarde e “allinguarle” togliendo lisca, squame, testa e coda e cercando di eliminare la maggior parte delle spine. Mettere a imbiondire la cipolla tritata finemente, unire l’uva passa, i pinoli, le acciughe sott'olio, sale e pepe. Aggiungere un mestolo d’acqua, lo zafferano (sciolto in una tazzina d’acqua tiepida) e cuocere a fuoco basso, aggiungere quindi le sarde, amalgamare il tutto per circa 10 minuti, se necessario, aggiungere poco alla volta dell’acqua fino a che si crei un sughetto ristretto.


A questo punto preparare la pasta (deve essere assolutamente “maccarruncino” bucato), scolarla e condirla.

Chi vuole potrà spolverarla con della “muddica atturrata” (pangrattato abbrustolito in padella).

Buon appetito!

martedì 12 ottobre 2010

Il riassunto

Ci sono periodi in cui il tempo sembra scorrere lento e nello stesso tempo ti accorgi di quanto è passato velocemente.

Dall’ultima volta che ho scritto un post, ad esempio, sono già trascorsi due mesi, passati così, rapidamente, e pensi, “ma come è possibile? sembra che sia da ieri ed invece...”, e nello stesso tempo ti domandi: “ma cosa ho fatto di così impegnativo in tutto questo tempo da non poter scrivere? Boh!”

Due mesi, ne è passata acqua sotto i ponti (per fortuna non il fantomatico ponte sullo stretto), e così sono passati velocemente (e nemmeno tanto) cognati e case di Montecarlo (di cui siamo stati costretti a sapere ogni particolare), crisi governative in Sicilia e presunte tali in Italia (chissà), infantili trasformazioni di SPQR risoltesi a tarallucci e vino, drammatici delitti che fanno audience, dossier ben confezionati, ipotetici attentati, parate di dittatori con hostess convertite (poi dicono che c’è crisi di spiritualità), il papa a Palermo tra giubilo e contestazioni (vietate), tagli alla scuola e simboli inquietanti in una scuola, Miss Italia trans , lapidazioni (rinviate) e pena di morte (attuate), sindaci eroici assassinati, minatori sotto terra, scazzottate in sala parto, Elio al posto di Morgan , la guerra che fa morti (ed anche il lavoro), gli scioperi (quasi vietati) degli operai etc... Sembra passato un secolo, ma sono solo due mesi...

Ed io? Sono sempre nel mio villino a Terrasini, luogo che i terrasinesi doc chiamano campagna anche se campagna non è, tra le varie cose fatte, ho raccolto pomodori, pochi peperoni, melanzane e pinoli, ho pulito le infinite sarde regalatemi dalla signora Rosa, ho pendolato tra Palermo e Terrasini , ho letto un libro pensando agli altri quattrocento circa che giacciono in magazzino tra la polvere, ho vistato meraviglioso paese di Castellamare del golfo con la gioia amplificata dal rivedere due amiche (una grande ed una più piccolina, la figlia) che non vedevo da tempo che si trovavano lì, non ho salutato (e questo mi rattrista) una cara amica che si è trasferita a Londra (tanti amici ormai sono fuggiti dalla Sicilia in cerca di realizzazione), due care amiche hanno dato alla luce due nuove vite, sono stata più o meno volontariamente disoccupata, ma mai mi ha sfiorata il pensiero di lasciare la Sicilia (forse solo un pochino), ho cucinato tanto, ma a parte pasta con sarde, anciova, vope fritte, sgombri arrostiti e cous cous al pesce, nulla di tipico o di particolarmente degno di nota se non nella mia improbabile rubrica intitolata “la vera cucina palermitana, ovvero quella cucinata da una palermitana aliena doc”, dove gli ingredienti principali sono: barattolino di vongole (senza barattolino ovviamente), tonno in scatola del discount, pesto pronto (a base di oli di origine sconosciuta), bastoncini di marca ignota (e di pesce scomparso), surgelati di vario tipo, ma udite udite, non ho mai preparate le mie mitiche spinacine... devo per forza rimediare!

Ma non preoccupatevi, a questa rubrica devo ancora lavorarci, il mio prossimo post sarà invece sulla pasta palina e questa è davvero “from Palermo”!
Ecco un piccolo assaggio.
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