La particolarità della cucina palermitana, come ho già scritto altre volte, è data dall’ armonia di differenti stili e sapori provenienti da differenti culture.
E’ una cucina che ha come sottofondo una precisa filosofia che vede come motivo fondante lo scontro o incontro tra il bene e il male, tra gli opposti, che a tavola si esprime sotto forma dell’accostamento tra agro e dolce.
E’ una cucina che ha come sottofondo una precisa filosofia che vede come motivo fondante lo scontro o incontro tra il bene e il male, tra gli opposti, che a tavola si esprime sotto forma dell’accostamento tra agro e dolce.
E’ una cucina elaborata nelle corti degli emiri arabi e consumata all’interno dei mercati dove era d’uso comune mangiare con le mani, tra il vocio e le urla della gente. Si è arricchita dell’eleganza e della raffinatezza donata dalla cultura francese, grazie alla professionalità dei cuochi d’oltralpe, i Monsù (dalla sicilianizzazione del termine francese Meussieur) che allietavano, con i loro piatti a base di cacciagione, pesce e salsine gustose, i nobili francesi.
L’arte culinaria si trasferisce poi dalle corti ai monasteri, dove erano le mani delle numerose suore, che per vocazione o per necessità, trascorrevano in preghiera la propria vita, a sperimentare nuovi dolci o quella che oggi chiamiamo “rosticceria”, da mandare alle proprie famiglie lontane o da vendere per avere un proprio sostentamento.
La cucina palermitana popolare, traendo ispirazione da tutti questi spunti, si è poi definita nelle case delle famiglie semplici, che ambivano a imitare le corti dove le tavole erano imbandite con fasto e splendore. I palermitani più poveri non si accontentavano di ascoltare i racconti riguardanti i Monsù e le corti, non si accontentavano di sentire il profumo invitante che fuoriusciva dai palazzi, volevano avere anche loro il diritto di gustare quelle delizie, ma c’era un limite al loro diritto, quel limite era la povertà. Non disponevano di ingredienti prelibati da cucinare, non avevano pesce fresco, uccelletti, quaglie, etc. Ciò che potevano permettersi erano le verdure, i legumi, le sarde (non proprio freschissime), il pesce sotto sale o sott’olio. Però possedevano un ingrediente importantissimo, il più importante, la fantasia.
L’arte culinaria si trasferisce poi dalle corti ai monasteri, dove erano le mani delle numerose suore, che per vocazione o per necessità, trascorrevano in preghiera la propria vita, a sperimentare nuovi dolci o quella che oggi chiamiamo “rosticceria”, da mandare alle proprie famiglie lontane o da vendere per avere un proprio sostentamento.
La cucina palermitana popolare, traendo ispirazione da tutti questi spunti, si è poi definita nelle case delle famiglie semplici, che ambivano a imitare le corti dove le tavole erano imbandite con fasto e splendore. I palermitani più poveri non si accontentavano di ascoltare i racconti riguardanti i Monsù e le corti, non si accontentavano di sentire il profumo invitante che fuoriusciva dai palazzi, volevano avere anche loro il diritto di gustare quelle delizie, ma c’era un limite al loro diritto, quel limite era la povertà. Non disponevano di ingredienti prelibati da cucinare, non avevano pesce fresco, uccelletti, quaglie, etc. Ciò che potevano permettersi erano le verdure, i legumi, le sarde (non proprio freschissime), il pesce sotto sale o sott’olio. Però possedevano un ingrediente importantissimo, il più importante, la fantasia.
Così dei cibi poverissimi potevano essere dei perfetti surrogati di quelli originali, e il risultato erano piatti deliziosi, dei veri “falsi d’autore gastronomici”. Bastavano salsine agrodolci a base di capperi e olive, la salsa “assassunata” (a base di aglio e olio), pangrattato, uvetta etc. per valorizzare qualunque pietanza.
Fu cosi che le sarde furono mimetizzate e trasformate in beccafichi (uccelletti prelibati), le melanzane tagliate sui lati e fritte assunsero l’aspetto delle quaglie, sempre le melanzane sostituirono il pesce capone (lampuga) nella caponata, si friggeva la milza per avere l’idea di mangiare “carne vera”, le fave venivano cucinate “a cunigghiu” forse per illudersi che tra quei legumi si trovavano tocchetti di conigli da cacciagione, e le sarde venivano aperte e deliscate per somigliare alle prelibate sogliole che i nobili spagnoli chiamavano “lenguado”, così le sarde palermitane divennero “allinguate” ovvero “sarde a sogliola”. Si usava il tonno sott’olio, l’ uva passa per addolcire e i pinoli per “disinfettare” lo stomaco, i ceci per creare deliziose frittelle, le frattaglie per imitare stufati di carne, e non si buttava niente, tutto poteva essere trasformato in delizia, dalle foglie vellutate della pianta della zucca, chiamate tenerumi , insaporite da aglio e olio, alle cartilagini soffritte nello strutto (frittola) e persino i residui della frittura di panelle e crocchè (arrascatura) da mangiare nel panino.
La ricetta di oggi è molto semplice, si tratta delle “sarde allinguate” e fritte, la cui particolarità è quindi quella di sostituire le sogliole.
Le sarde vengono pulite, diliscate e aperte a mo’ di libro, tanto da assumere proprio la forma piatta della sogliola.
Vengono lasciate per almeno mezz’ora a bagno nell’aceto. Dopo averle fatte macerare, si passano nella farina e poi nel pangrattato (muddica) a cui si è aggiunto un pizzico di sale. Si immergono poi in una padella colma di olio d’oliva bollente. Quando sono ben dorate si tolgono dall’olio e si mettono in un piatto con carta assorbente. Si gustano “belle calde”.
2 commenti:
Che bella questa ricetta, semplice e buona come piace a me.
Grazie la copio subito.
baci
deliziose queste sarde...un bacio
Annamaria
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