mercoledì 5 maggio 2010

Topo di città, topo di campagna



Come molti già sanno sono nata e cresciuta in una città, e tra l’altro trattasi di Palermo, città particolarmente caotica, che per noi “del luogo” è la Città per eccellenza, il centro del Mediterraneo, Panormus, città “tutto porto” che per anni è stata anche la capitale di un impero...sarà per questo che per i palermitani, “tutto il resto è paese e solo Palermo è città” .

Devo però ammettere che malgrado le dimensioni ed il numero di abitanti molto elevato non sempre a Palermo la mentalità è del tutto cittadina, ad esempio può capitare che in alcuni quartieri “tutti sanno tutto di tutti”, magari non lo sai, ma scopri per caso che i vicini di palazzo hanno seguito i tuoi movimenti, non certo nel senso di spionaggio, ma che con modi apparentemente distratti hanno capito chi sono i tuoi parenti, i tuoi orari, i ritmi di vita, etc.
Ci è capitato, e questo è solo uno dei tanti esempi, che una anziana vicina di casa, dall’udito strepitoso, ci dicesse: “ho capito che stava uscendo perchè mi metto al balcone e sento quando lei dice –sto tornando- “... e giuro che noi generalmente parliamo a bassissima voce.

Digressioni a parte, sono sempre stata in città, tra lo smog e i palazzi alti, l’asfalto ed il grigiume, i monumenti imponenti e le aiuole prive di vegetazione, tra i rumori di clacson e quelli dei motorini per l’acqua. Con la campagna solo qualche contatto durante le gite domenicali o le vacanze. Non posso, per fortuna, dire di essere stata una di quelle bambine a cui chiedevano di disegnare un tonno e ti disegnavano la scatoletta del nostromo, perchè grazie alle tante gite in famiglia, ho avuto modo di vedere animali veri e piante non di plastica, però durante le scampagnate sono stata sempre un po’ restia alle api o vespe, ed a casa ho solo coltivato qualche pianta grassa che poteva entrare nel mio piccolissimo cortiletto.

Adesso la cittadina doc si è trasferita in campagna ed ha scoperto un nuovo mondo. Le api e le vespe non mi disturbano, anzi è capitato che un giorno un’ape volesse attingere alle mie urbane terga, e a Massimo che tentava gentilmente di scacciarla, ho esclamato stupendo anche me stessa: “attento che sono in via d’estinzione!”.
E poi ho cominciato ad affondare le mie mani nella terra. I primi risultati pessimi, ho piantato dei semini di basilico, innaffiandoli con amore e andandoli a visitare tutti i giorni aspettando i germogli, dopo tanti giorni ho scoperto che stavo coltivando erbacce di vario tipo, ma nessuna traccia di basilico.

Finalmente però aiutati da un cugino esperto in materia, abbiamo piantato pomodori,
cetrioli
e melanzane,
e poi basilico (questa volta in piantine),


prezzemolo,


menta


e dei semini di salvia (speriamo bene!).
Poche piante perchè tutto lo spazio che abbiamo è alberato e troppo ombroso, ma si vedrà.

Durante la piantagione siamo stati letteralmente assaliti dalla zanzare, ma della loro estinzione ammetto non mi preoccupo tanto...

Per l’orticello abbiamo prima preparato i “vattali”, non so se è un termine siciliano o meno, so che sono delle file di terra ammonticchiata (dove vanno messe le piantine) separate da grandi vasche (sempre di terra) dove si farà andare l’acqua di irrigazione.

La zona deve essere soleggiata e dovrò innaffiare, per la prima settimana, ogni sera, poi un giorno si ed uno no. Se tutto va bene in un mese si dovrebbero vedere i frutti o meglio, gli ortaggi.


La campagna è bella e rilassante, c’è profumo di fiori


e di erba bagnata, sento solo il suono del canto delle capinere e delle tortore, vedo ulivi, limoni,


viti, un albicocco e un nespolo,


i ritmi sono lenti e rilassanti, l’attesa di vedere nascere un germoglio, metafora della vita, e di scoprire una nuova foglia o un frutto. Mi lascio abbracciare dal sole tiepido di questa primavera ed osservo il cielo azzurrissimo, libero dai palazzi, dalle antenne...
Vabbè ogni tanto andrò di certo a Palermo a disintossicarmi da tutte queste amenità respirando un po’ di aria pura di città, perchè forse lo smog, il traffico ed i rumori sono come la nicotina, fanno male, ma creano crisi di astinenza!
p.s. su blog di cucina c'è già la mia prima ricetta, non poteva che seere "A pasta chi sardi"

sabato 1 maggio 2010

Primo Maggio, festa dei lavoratori. E poi una nuova rubrica su Blog di cucina.

Oggi scrivo per due motivi.

Uno mi riguarda personalmente e mi ha fatto molto contenta in questi giorni.
Su Blog di cucina c'è una nuova rubrica che sarà curata da me. Di cosa si tratta? La risposta è semplice, non potevo che occuparmi della cucina siciliana! La rubrica si intitola infatti "La Sicilia in tavola".

Oggi su Blog di cucina è stata pubblicata la presentazione della rubrica e prossimamente sarà on line la prima ricetta. Spero tanto che vi piaccia!

Approfitto qui per ringraziare lo staff che cura questo bellissimo aggregatore, fatto da persone appassionate, simpatiche e molto gentili!

Per tutti i blogger siciliani, sono super graditi i vostri suggerimenti in materia!

Il secondo motivo (ma non per importanza, anzi...) è che oggi è una data di grande valore, Il Primo Maggio, quella che viene considerata la "festa dei lavoratori".

In Sicilia e non solo, durante questa giornata c'è chi approfitta del giorno di vacanza e del bel clima per andare a fare una scampagnata e se riuscirò, prima o poi scriverò un post sulle scampagnate in vesione palermitana doc. Poi c'è anche chi va a manifestare, ed in Sicilia esiste un luogo in cui il primo maggio assume un significato ancora più grande: Portella della Ginestra, dove nel 1947 durante una manifestazione di contadini, per l'occupazione delle terre, vi fu una strage, in tanti avevano interessi a zittire quelle voci.
L'anno scorso ho scritto questo post su quello che è un luogo bellissimo e ricco di significato.



Quindi un abbraccio a tutti ed in particolare ai disoccupati, ai precari, alle vittime sul lavoro, agli sfruttati, a chi è emigrato e chi è immigrato in cerca di lavoro e di fortuna e a tutti quelli che vogliono una vita migliore non solo per sè, ma per tutti.
Un saluto dalla bellissima Terrasini

Evelin

martedì 27 aprile 2010

L'insalata di arancia con l'aringa



C’è una particolarissima “insalatina” che a Palermo è molto gradita, e rappresenta anche l’antipasto tipico durante i periodi di festa.

Malgrado tutto il palermitanesimo che c’è sempre stato in me, per lunghi anni mi sono rifiutata di assaggiarla, sarà forse che i palermitani in età adolescenziale ancora non apprezzano certi contrasti o che ci vuole tempo per apprezzare alcune prelibatezze.
Adesso però ho rimediato al tempo perduto e mi faccio grandi ed infinite scorpacciate di arancia con l’aringa, perchè come capitava all’avventuriero Ulisse, una volta superati i propri limiti (in quel caso le Colonne d’Ercole, nel mio caso concepire l’arancia accostata al salato), non ci si riesce più a fermare.

Ho scoperto che l’arancia, dolce e succulenta, dal colore del sole al tramonto, il frutto che ha dato per molti anni il bellissimo nome di “Conca d’oro” alla mia città (che vista dall’alto era tutta adornata da aranci e limoni) e che adesso sembra quasi una beffa, perchè quell’oro è stato sostituito dal cemento selvaggio durante il sacco di Palermo, dicevo che ho scoperto che il frutto il cui nettare delizioso rende liete le colazioni e la cui polpa è perfetta per concludere i nostri pasti, raggiunge un gusto davvero sublime se accostata al pesce salato o affumicato.



Anche in questo caso si deve tutto agli arabi che importarono le arance in Sicilia nel XII secolo. Per il resto è bastata un po’ di fantasia popolare nell’aggiungervi il pesce salato o affumicato che nei mercati palermitani abbonda da sempre. A Palermo infatti, soprattutto nel passato si usava molto il sale (a basso costo) per conservare le grandi quantità di pesce pescato in zona o portato come merce di scambio da altri lidi. Sottosale finivano le sarde, le acciughe, il baccalà e poi c’erano le aringhe (del NordEuropa) che erano invece affumicate.



Tutti questi prodotti vengono venduti ancora oggi da “u saliaturi” o dall’ancora più specializzato “aringaru” che con perizia prima di vendere le aringhe toglie la spina centrale, le scuoia dalla pelle e le avvolge in carta di giornale.



L’aringa ha un sapore molto forte, che l’arancia aiuta molto a contenere, la sua carne è gustosa e molto apprezzata dai Palermitani, ma c’è una parte in particolare che viene considerata una vera prelibatezza, un boccone speciale: l’uovo, che non sempre si trova (bè ci saranno pure le aringhe maschio da vendere), il suo aspetto è come un insieme di infinite micro bollicine dal colore dell’ambra, il gusto invece non si può raccontare, si deve provare.



Detto tutto ciò, l’aringa unita in un felice matrimonio con l’arancia (le caratteristiche sono estremamente diverse ma ben assortite tra loro), con aggiunta di cipollina e olive (che spero non siano gli amanti, ma in ogni caso arricchiscono il tutto), condite da olio, sale e pepe, diventa un cibo come sempre povero ma ricco, ed i nostri palati sono gratificati come non mai (almeno il mio, dai diciotto anni in poi).


Bisogna fare però attenzione a un antico detto: “l’arancia di giorno è oro di sera è chiummu (piombo)”, secondo queste parole bisognerebbe evitare di mangiare le arance la sera, se poi si aggiunge l’aringa, l’effetto indigestione è assicurato.
Ma siccome avevo un bisnonno che ogni sera mangiava un’arancia ed è vissuto fino a novantadue anni, io non demordo e sfido il detto popolare!

La ricetta è semplice e va “misurata” ad occhio. Arance sbucciate e tagliate a tocchetti, aringa (ripulita dalle spine) e tagliata a pezzi, cipolla affettata (meglio ancora le cipolline scalogne), olive nere, olio, sale (poco) e pepe.

E buon appetito

lunedì 19 aprile 2010

La nostra compostiera



Se a Palermo, come scrivevo già tempo fa, e come è tristemente noto, la situazione dei rifiuti è grave, anche in provincia non si scherza. A Terrasini non ho ancora visto un cassonetto dell’immondizia, e questo mi sembra molto positivo se pur misterioso, ma ogni tanto da qualche balcone ho visto pendere un sacchettino attaccato ad un laccio (tipo paniere), strana abitudine o un diverso modo di prelevare i rifiuti? Non voglio giungere a rapide conclusioni, mi informerò meglio, magari era un caso isolato. In compenso nelle strade larghe alla periferia del paese, ci sono lunghe filiere di cassonetti ripieni di montagne dei soliti “variopinti pacchetti” e contornati da mobili di ogni genere, vecchiume vario, luoghi di ritrovo di cani e gatti (insomma delle specie di gratuiti pub a quattro zampe).

Ora sarà per queste visioni non proprio auliche o perchè avere un giardino (se pur piccolo) spinge a certi desideri, abbiamo deciso di intraprendere una nuova impresa: costruire una compostiera.
Insomma, se possiamo trasformare i nostri casalinghi scarti in concime per le piante, perchè non farlo?


Prendendo così ispirazione da vari blog, tra cui quello di Danda, abbiamo cominciato a capire le basi fondamentali del compostaggio e abbiamo iniziato.

Prima decisione: Non acquistare la compostiera, potevamo costruircela noi con materiali di riciclo (ops, mi sento una vera ecologista!).
Primo passo: trovare tali materiali nello scantinato di mio nonno, abbandonato da anni, pieno di tutto (perchè mio nonno è un palermitano doc, ma non butta niente, conserva tutto perchè “non si può mai sapere...”), serrande, mobilucci rotti, sedie sfondate, latte di vernice solidificata, milioni di bottiglie di vetro, bidet e lavabi fuori uso, ed altro, altro ancora. Il primo pensiero dopo aver aperto lo sportello dello scantinato? Richiudiamolo subito! Ma poi abbiamo trovato delle cassette di legno e sembravano perfette!
Secondo passo: cominciamo a schiodare delle assi, rompere legnetti e chiodi arrugginiti, accorpiamo il tutto e la compostiera è fatta.

Dubbi e ripensamenti: è troppo brutta? reggerà? Sarà un po’ troppo infradicita dal tempo?
Risposte e fatalismo: deve contenere rifiuti, non gioielli, se mai si vedrà...
Terzo passo: scelta della ubicazione. Giro di tutti gli angoli del giardino, “lì è troppo esposta, là non ci sono alberi, lì è difficile da raggiungere (ricordiamoci sempre la lagnusia), ecco, qui può andare!” Un bell’angolino sotto un grande albero e una “pala di ficodindia” , pochi passi da casa, ma a una certa distanza (chissà dovesse emanare strani odori).

Quarto passo: foto per celebrare l’opera.


Ho cominciato a riversare in questa costruzione i miei rifiuti, per ora tutta contenta di triturare ben bene gusci d’uova e bucce varie, speriamo non sia solo l’entusiasmo della novità. Certo subito dopo averla fatta, la pioggia incessante, ora vedrò di recuperare il tutto, tra cui allontanare la folla di moscerini venuta a visitare (ma senza fare la fila e pagare il biglietto) questo pezzo da museo.


Ancora non so se si realizzerà l’auspicato concime, bisognerà aspettare almeno sei mesi (saremo ancora qui? mah! si vedrà), però mi sento soddisfatta. E domani forse realizzerò il mio primo orticello (e pensare che ho sempre usato questo termine solo per dire “non bisogna pensare solo al proprio orticello”) di piccole dimensioni, con una decina di piantine di pomodori e melanzane. L’avevo detto io: “voglio andare a vivere in campagna ah ah”.

p.s. a tutti gli esperti in compostiere: “datemi i vostri preziosi consigli, please!”

lunedì 12 aprile 2010

Sarde a beccafico



Ho avuto a che fare con una questione spinosa, e non sto esagerando perchè le spine c’erano davvero: ho preparato le sarde a beccafico (anzi più che sarde erano alici o come le chiamiamo noi “anciova”). Le sarde, come le alici, sono tra i pesci meno cari che esistano, sono buonissime e sempre fresche perchè vengono pescate nei nostri mari quotidianamente, hanno però un piccolo difetto, sono piccole e così pulirle è una operazione che necessita di tanta pazienza (oltre che di uno stomaco forte, ma quello ci vuole in generale per pulire tutti i pesci).


Visto che per ora la pazienza non mi manca, ho pulito le mie belle alici dotata di guanti da chirurgo e con un atteggiamento un po’ imbranato (era la prima volta che facevo questa operazione lo ammetto), e non contenta le ho anche “allinguate” (private di lisca e aperte a libro). L’operazione di trasformazione delle sarde in sogliole (bisogna ricordare che il termine “allinguata” deriva dalla parola spagnola “lenguada” che significa sogliola) è molto delicata, bisogna stare attenti a non far distaccare le due parti del pesce e se poi si devono addirittura trasformare in beccafichi, bisogna non togliere la coda (elemento fondamentale per l’estetica ingannevole del piatto, che deve ricordare l’uccelletto da cui prende il suo nome).

Le sarde a beccafico sono infatti uno di quei tanti piatti che nascono dalla cucina povera dei palermitani del popolo che volevano riecheggiare sulle proprie tavole la ricchezza dei banchetti delle lussuose, sfarzose e decadenti corti del capoluogo siciliano). Il beccafico è un uccelletto che veniva cacciato nelle tenute delle famiglie più ricche, durante le tante battute di caccia, brutali svaghi dei nobili che di certo non avevano bisogno di alimentarsi con piccole quaglie e altri uccelli, ma piuttosto di trovare qualcosa da fare per trascorrere il tempo, visto che erano dediti al dolce far nulla ed anche alla “lagnusia” (tipico stato d’animo tra l’apatia e la pigrizia, il fatalismo e l’attendismo, il tutto condito da una certa dose di presunzione).

Ritornando alle sarde, hanno la coda che ha la caratteristica di essere identica a quella del beccafico, e se riempiti di una “consa” (ripieno) a base di “muddica” (pangrattato) e vari condimenti, potevano benissimo sostituire quei nobili uccelletti e allietare le tavole dei popolani. Le sarde a beccafico hanno anche la dote di racchiudere tutti i sapori tipicamente palermitani, dal pesce azzurro, ai pinoli usati per la loro funzione antibatterica, all’agro dolce (di araba provenienza) ottenuto mischiando il succo dei limoni siciliani con lo zucchero e l’uva passa.

E così anche io, principiante emulatrice dei Monsù (cuochi francesi), ho finalmente cucinato le sarde a beccafico, arrotolandole una per una, irrorandole con una deliziosa salsina a base di limone e zucchero, creando così una delle più sfiziose e deliziose prelibatezze della nostra tavola, dei bocconcini che armoniosamente raccontano di Palermo.


Ricetta:
Sarde, olio evo, pangrattato, una manciata di uva passa e pinoli , zucchero, cipolla, sale e pepe, foglie di alloro, prezzemolo, succo di limone (o di arancia). Le quantità non le ho scritte perchè si va “ad occhio”, ma per un chilo di sarde bastano circa 100gr di pangrattato.

Procedimento:Pulire le sarde, privarle delle teste, togliere la lisca centrale, aprirle a libro e lasciare la coda.
Preparare il ripieno unendo al pangrattato un po’ d’olio, prezzemolo e cipolla tritati, uva passa, pinoli, sale, pepe ed un pizzico di zucchero. C’è chi fa abbrustolire in precedenza il pangrattato, ma secondo me non è necessario. Amalgamare bene il tutto. Riempire ogni sarda con un po’ di condimento, arrotolare in modo che la coda resti in alto. Disporre gli involtini in una teglia oliata, uno a fianco all’altro separati dalle foglie di alloro.
Irrorarli con una salsina ottenuta unendo il succo di un limone con dell’olio evo e un cucchiaino di zucchero ed infornare per una ventina di minuti circa.
E come sempre buon appetito!

sabato 10 aprile 2010

Da Terrasini - post trasloco

Da tempo ormai non scrivo, dopo l’assestamento post trasloco, il nuovo problema è stata la connessione internet. Dopo un’attesa di circa quindici giorni, il verdetto: “non c’è copertura”.
Il luogo ameno in cui mi trovo infatti ha (almeno per ora) un solo problema (escludendo il fatto che non si tratti di Palermo): non arriva la adsl (detto in termini semplici, i vari operatori telefonici hanno usato termini più complessi ed espressioni più arzigogolate).

Ma insomma, dove ci troviamo?
Siamo a Terrasini, piccolo centro a trenta chilometri dalla città più bella del mondo (è chiaro che non intendo né Roma, né Parigi, ma sempre Palermo...), paese marittimo di cui avrò tanto da scoprire e da raccontare. Mi trovo in campagna, nel cosiddetto “villino” dei miei nonni, quello dove abbiamo raccolto le olive qualche mese fa. Al momento sembra essere una scelta provvisoria, pochi mesi per riapprodare poi a Palermo, oppure riecheggiando una canzone di Toto Cutugno che diceva cantilenante: “Voglio andare a vivere in campagna”, decidiamo di scappare dal caos fascinoso di Palermo per rimanere nella natura. Il futuro darà le sue risposte, del resto siamo siciliani e fatalisti.

(fiori raccolti nel giardino)

Comunque tornando ad internet, dobbiamo usare la chiavetta, e quindi sarà tutto un po’ più lento e limitato. Spero che, anche se non riuscirò ad andare come prima nei tanti blog che amo leggere, cari amici bloggers (e non solo) verrete lo stesso a visitarmi e a lasciarmi una vostra traccia.

Approfitto ora per dare un saluto a tutti gli Aquilani perchè non ho potuto farlo il giorno del triste anniversario.

Adesso (sempre che riesca a caricarle) ecco delle foto del bel mare di Terrasini, ed a presto sarò pronta a scrivere ancora di Palermo, di cibo, di mare etc.
Evelin







venerdì 19 marzo 2010

San Giuseppe, due foto esemplificative

Anche oggi che è San Giuseppe non potevano mancare la pasta con le sarde e le sfinci di San Giuseppe, solo due foto e pochissime parole...




giovedì 18 marzo 2010

Fegato in agrodolce alla palermitana, la vera versione “du ficatu ri setticannola”

Oggi un piatto particolare e gustoso che è la versione originale di una pietanza tipicamente palermitana che ha però la caratteristica di essere un “vero falso d’autore”.
Cercherò di essere più chiara comprendendo che questo giro di parole è un po’ arzigogolato. Ho già raccontato in altro post che a Palermo ci sono dei piatti popolari e poveri che nascono come imitazioni di versioni più “ricche”, che venivano preparate nelle corti dei nobili siciliani, dai cuochi francesi ( Monsù). Questi piatti hanno la caratteristica di contenere degli ingredienti meno costosi degli originali che, ben mimetizzati, sostituiscono alcuni ingredienti inaccessibili alla gente del popolo. Così ad esempio esistono le fave a coniglio (ma il coniglio non c’è), la caponata di melanzane (senza il pesce capone), le sarde a beccafico (ma degli uccelletti chiamati beccafico nemmeno l’ombra), o le quaglie (che sono melanzane fritte, e il pennuto è prontamente volato via), etc...

Un altro esempio, che poi è il rifacimento del piatto di cui parlerò adesso è “u ficatu ri setticannuola” (il fegato dei settecannoli), dove il fegato è assente, ma ben sostituito dalla zucca rossa, e per spiegare l’appellativo “settecannoli”, ci sono due leggende, una che si riferisce al quartiere povero dei Settecannoli (dove il piatto con la zucca sarebbe stato inventato), oppure alla piazza della Vucciria, che al suo interno ha la famosa fontana del Garraffello, che conta sette cannelli (cannoli) per l’uscita della miracolosa acqua (altra legenda), dove gli ambulanti avrebbero venduto il piatto a base di zucca rossa.



Ma andiamo alla versione originale del piatto, ovvero quella fatta con il vero fegato. In realtà anche questo è un piatto povero, se infatti trattasi di carne, sempre di frattaglie si sta parlando. E’ una ricetta tipicamente palermitana, dove elementi fondamentali sono l’agrodolce ed anche la frittura (ricordo che noi palermitani siamo definiti “pariddara” che significa pressappoco friggi-tutto).
E’ un piatto che non tutti vogliono assaggiare, perchè il fegato non sempre è gradito per il suo gusto dolciastro e particolare, ma che in realtà grazie alla sua elaborazione assume un gusto molto buono e perde le tipiche caratteristiche spiacevoli del fegato, quindi, vegetariani a parte, invito tutti a provare questa ricetta, in caso di totale rifiuto, non posso fare che consigliare la versione ancora più povera a base di zucca, ovvero il più famoso “ficatu ri setticannuola”.

Questo piatto a noi palermitani veniva consigliato dalle nonne fin dall’infanzia, non so se è legenda popolare o se c’è un fondamento scientifico, ma si usava dire: “il fegato fa bene ai bambini”, ora devo dire che un piatto fritto, untuoso e con l’agrodolce, non so se proprio rappresentasse il modo migliore per nutrire i piccoli esemplari di palermitanini doc, ma è così che molti di noi sono cresciuti, e le conseguenze si vedono...



Ed ecco finalmente la ricetta!

Ingredienti: alcune fettine (non troppo doppie) di fegato (bovino), pangrattato, due cucchiai di aceto, un cucchiaino di zucchero, olio di semi, olio evo, aglio, sale e pepe.

Lavorazione: passare le fettine nel pangrattato e friggerle in una padella con abbondante olio di semi. Toglierle dall’olio e metterle in un piatto coperto di carta assorbente. Preparare un’altra padella con abbondante olio evo e far scaldare degli spicchi di aglio tagliati a fettine (per lungo). Aggiungere un pizzico di sale e pepe, due cucchiai di aceto e lo zucchero e far evaporare. Adagiare nella padella le fettine precedentemente fritte e farle assaporare nel sughetto da entrambi i lati. Mettere in un piatto e servire a tavola.

Per mangiarlo, vista la sua pesantezza, ci vuole proprio del fegato!

venerdì 12 marzo 2010

Il mitico sfincione palermitano.

Lo sfincione a Palermo non è solo un cibo, un piatto prelibato e tipico, è qualcosa di più, un modo di essere, un mondo a parte, uno status symbol, Palermo è simile ai suoi cibi, dunque somiglia anche allo sfincionello (spesso si usa con affetto il diminutivo), untuosa al punto giusto, irresistibile, gustosa, ricca di sapori, indigesta al punto giusto.


Lo sfincione si può fare in casa, comprarlo dai tanti fornai della città, ma mai nulla è pari all’acquistarlo dallo “sfincionaro” dotato di “lapino” (motoape), in questo caso oltre al gusto, saranno nobilitati tutti i nostri sensi, dall’odorato all’udito, e si entrerà a far parte dell’essenza della città, ci si immergerà rapidamente e con irruenza nel suo mondo più affascinante, popolare, arcaico.

Lo sfincione anche se nasce come un cibo per le feste è un piatto povero. Come avviene per la pizza, l’idea di fondo sta nell’aggiungere alla pasta di pane “schietta” (semplice) una “cuonza” (condimento) per arricchirne il gusto. Nel caso dello sfincione, la cuonza è ottenuta usando prodotti semplici e poco costosi (cipolla, acciughe, cacio cavallo, pomodoro) che però ben cucinati e mescolati tra loro conferiscono al tutto un gusto ed un profumo inebrianti.

Fu probabilmente inventato dalle suore del monastero di San Vito. Devo dire che le suore a Palermo, non so se abbiano contribuito all’elevazione dello spirito dei cittadini, ma di certo hanno avuto un ruolo predominante nella fondazione del nostro patrimonio gastronomico, sono state loro ad inventare la rosticceria, le cassatine, la frutta martorana etc. Inizialmente gli sfincioni venivano preparati durante le feste natalizie, ancora oggi è un rito insostituibile mangiarli durante la vigilia della festa della Madonna, durante quel giorno, girando per Palermo è possibile sentire nell’aria un intenso odore di cipolla. Altri momenti fondamentali per la vita dei palermitani, in cui lo sfincione non poteva mancare, erano le feste di fidanzamento, o meglio il primo incontro tra le due famiglie coinvolte.

Successivamente lo sfincione è diventato un cibo per tutti i momenti, un cibo da fast food, da mangiare a colazione o a tutte le ore, facilmente reperibile in tutta la città perchè gli sfincionellari ambulanti portano la loro deliziosa mercanzia dappertutto.

Lo sfincione potrebbe dunque sembrare una pizza dal condimento un po’ particolare. In realtà ciò che lo caratterizza e differenzia dalla pizza, non è tanto la conza, ma il tipo di pasta, ed è infatti dalla pasta che prende il suo nome.

La parola sfincione, come anche sfincia, origina dal latino “spongia” (spugna) o ovviamente dall’arabo “sfang” (frittella), e si riferisce quindi al suo aspetto e alla sua consistenza spugnosa, morbida, porosa. Io dico sempre che noi palermitani siamo “lagnusi” (pigri), e forse lo siamo anche nel mangiare, troppa fatica nel masticare una pizza croccante, le nostre mandibole apprezzano maggiormente una pasta morbidissima e soffice! L’unico che dovrà realmente faticare è l’apparato digerente, quello impiegherà delle ore, d’altra parte si tratta di un organismo involontario e noi palermitani non possiamo farci niente, dovremo solo sopportare il “sali e scendi” di cipolla and company.

Ma adesso arriviamo al meglio di tutto il discorso relativo allo sfincione, ovvero il marketing. So che gli inglesismi ben poco si adattano all’argomento che di anglosassone non ha nulla, ma di questi tempi per far ben capire l’importanza della pubblicità si parla così!

Oggi, per vendere qualcosa la pubblicità è tutto, ma questo forse valeva anche nel passato, di certo con forme differenti, ed è così che senza scomodare esperti manager del settore, psicologi del mercato, etc., anche gli arabi ed i siciliani in genere sperimentarono un metodo vincente, “’l’abbanniata”. Trattasi di declamare ad alta voce degli slogan eccezionali, dai forti contenuti, dal linguaggio accattivante e comunicativo.
Nel caso dello sfincione palermitano gli slogan, per colpire, dovevano (e devono) parlare di unto, di sporco e di odore intenso (effetto shock, più delle foto di Oliviero Toscani), il gergo è necessariamente il dialetto siciliano, comprensibilissimo dalla maggior parte della gente (più della bella lingua italica di origini dantesche), condito da un forte accento palermitano (che ha l’effetto di rendere il tutto popolare ed ironico).
Così la frase più celebre da declamare nel passato era: “ Va tastalu, è scarsu r’uogghiu e chinu i pruvulazzu” che tradotto significa: “corri ad assaggiarlo, scarseggia in quanto ad olio ma è colmo di polvere”, che fa capire quanto fosse importante anche nel passato la lotta all’ obesità (potrebbe quindi usare questa frase Mrs Michelle Obama), e quanto apprezzata però fosse la polvere (che rende tutto “stile retrò” e molto vicino “all’uomo comune”... cose che funzionano sempre), anche perchè all’epoca non c’erano automobili e non si parlava ancora di polveri sottili.

(l'unto c'è e si vede)

Visto che tutto si evolve, anche il marketing dello sfincionello ha visto i suoi mutamenti, adesso gli ambulanti sono organizzati in una sorta di franchising, hanno tutti il famoso “lapino” (moto ape), acquistano il prodotto in un forno che a me risulta misterioso, ma ho scoperto trovarsi vicino Porta Sant’Agata, e non urlano più, hanno dei nastri pre-registrati (tutti uguali, con la medesima voce narrante) che con un megafono diffondono per le vie della città dei nuovi slogan, che adesso parlano di colori e profumi, la lingua è però sempre la stessa del passato, il dialetto palermitano che risulta sempre efficacissimo.
Così è facile poter sentire risuonare con voce cantilenante “ Uora, uora u sfurnavu” (l’ho sfornato appena adesso), o pressappoco : “Chi ciavuru, u culuri c’ha taliari, è beddu cavuru, vassia veni a mancia, sunnu cuosi ra bella vieru” (Che buon profumo, devi guardare il colore, è ancora caldo, vossignoria, venga a mangiarlo, sono cose fatte nel modo giusto).

E quando poi ci si avvicina alla motoape si trova un esperto ambulante che aggiunge svelto un filo d’olio d’oliva (visto che era poco unto...) e porge quella che è una vera delizia, morbida e gustosa, forse polverosa, ma sempre deliziosa, e come direbbe qualcuno. “dopo un solo morso si scordano tutti i guai”.
foto Judy Witts

RICETTA:


Ingredienti:

Per la pasta: 250 gr di farina 00, 250 gr. di farina rimacinata, 25 gr. di lievito di birra, 250 g (circa) di acqua, 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaino di sale, una tazzina di olio evo.

Per il condimento:4 cipolle, 300 gr. di caciocavallo fresco (a pezzetti), 50 gr. di caciocavallo grattuggiato, 100 gr. di filetti di acciuga sott'olio o sarde salate, 500 gr. di pomodori pelati, una manciata di origano, pangrattato tostato, un pizzico di zucchero, olio extravergine d'oliva, sale e pepe.

PREPARAZIONE:

Setacciare la farina, metterla a fontana in un recipiente. Sciogliere il lievito con un po’ di acqua tiepida, metterlo al centro della fontana ed aggiungere l’olio, il sale e lo zucchero. Impastare, aggiungendo a poco a poco acqua tiepida. La consistenza finale dovrà essere molto morbida, una via di mezzo tra il panetto della pizza e la pastella. Coprire con un panno (e una coperta di lana) e lasciare lievitare per 2 ore. Impastare una seconda volta in modo delicato e far lievitare per un’altra ora. A questo punto si può condire.

Per il condimento, affettare le cipolle sottilmente e farle appassire in un tegame con olio extra vergine di oliva. Unire i pomodori pelati , aggiungere un pizzico di zucchero, il pepe, poco sale e un’acciuga e far cuocere per 20 minuti circa.

Ungere una teglia e spolverare del pangrattato. Versare l’impasto ed aiutati da un po’ di olio, stenderla (spessore circa 2 cm) e fare delle fossette con le dita. Cospargere la superficie con pezzetti di caciocavallo (fromaggio) e di acciughe facendoli leggermente sprofondare nella pasta.Versare e distendere su tutta la superficie il sugo, spolverare con il caciocavallo grattugiato, con il pangrattato (precedentemente passato nella pentola sporca di sugo, per insaporirsi) e con l’origano. Irrorare con un filo d’olio e lasciare riposare per mezz’ora circa. Far riscaldare il forno a 250° circa, infornare per 30 minuti circa. E... Buon appetito.



Una chicca da non perdere: "l'abbanniata"



Aggiornamenti da qui.

I lavori di impacchettamento procedono... è una fatica in tutti i sensi... si scoprono tante cose che si aveva del tutto dimenticato di avere. Un abbraccio a tutti per la solidarietà, mi sono emozionata, grazie sento questa vicinanza!

questi sono solo i libri...e tutto il resto...non ci entra

Evelin

mercoledì 3 marzo 2010

Interruzioni, news da un ex b&b, una nuova pagina.

Eccomi di nuovo qui. Dove ero finita? Da nessuna parte direi, almeno fisicamente, invece il pensiero in questi giorni ha fatto il giro del mondo...

Cercherò di raccogliere tutta l’ironia e l’umorismo che risiede in me per raccontare queste ultime settimane.

C’è chi vuole il processo breve, perchè si dice che i processi durino molto tempo, anche se tutti sappiamo che il processo non diventerebbe più rapido, ma soltanto verrebbe interrotto prima di avere il suo compimento. C’è chi dice che ci sono le toghe rosse, un manipolo di comunisti che fanno i magistrati e che evidentemente se la prendono con i padroni.

Cosa c’entro io con tutto ciò?
Non ci hanno arrestati, no, non ci hanno trovati a chiacchierare di affari, a ridere sui i terremotati o a contrattare le massaggiatrici (bè, la cervicale ce l’ho pure io, ma al momento uso gli antinfiammatori).
Il nostro processo è stato per sfratto, e non è stato un processo troppo lungo, ne tanto meno abbiamo trovato le toghe rosse. Infatti abbiamo... velocemente perso, paradossi della giustizia, e visto che noi siamo la parte debole (affittuari e non padroni di casa) le toghe erano non proprio rosse...

In un processo le ragioni non sono mai tutte da una parte (anche se noi alcune le avevamo), quindi non racconterò i fatti che sarebbero contorti e complicati, fatto è che bisogna accettare la realtà, così siamo arrivati alla conclusione, dobbiamo lasciare la nostra casa e b&b entro la fine di questo mese. Ora, sapevo che saremmo dovuti andare via, ma pensavo fra qualche annetto, ed invece le cose sono precipitate e oggi ho cominciato a impacchettare.

Così l’Agave b&b almeno per un po’ non ci sarà, sperando che prima o poi torni ad esistere, noi cercheremo rifugio da qualche parte, insomma perdere casa e lavoro in un colpo solo è un poco traumatico ma stiamo cercando di reagire come meglio possiamo.

Avevo cercato un modo per scrivere questo post, ho trovato questo...

Altra comunicazione, non pensate di “liberarvi di me”, il blog è nato certamente anche per dare visibilità al nostro bed and breakfast, ma poi è diventato per me una vera passione, passione nel condividere l’amore per la mia terra, divertimento nel comunicare con tante persone e blogger meravigliosi, amore per la scrittura, strumento per distrarmi nei momenti di tristezza.

La pubblicità al nostro b&b, che per noi più che una attività commerciale, è stato (e spero sarà) piuttosto un’esperienza meravigliosa che ci ha arricchiti umanamente, era solo un pretesto, una spinta per sconfiggere l’iniziale timidezza ad entrare nel mondo dei blog, a pubblicare i miei scritti. Adesso che ho cominciato, credo proprio che continuerò a parlare di Sicilia e sicilianità, di cibo e di tradizioni, è la cosa che mi piace fare, magari ci sarà qualche piccola interruzione solo per problemi tecnici, ma insomma, continuerò ancora ad “atturrare” (rompere le scatole) tutti quelli che avranno la pazienza di leggermi!

P.s. mi scuso con tutti gli amici, ospiti, persone che ci conoscono, ai quali ancora non abbiamo avuto il modo di comunicare personalmente tutto ciò, ma di fatto solo ieri è stata presa la fatidica decisione, dopo un mese di incertezze.

P.s. chi volesse avere informazioni per i propri viaggi in Sicilia, può sempre scriverci, a noi ha fatto sempre piacere poter dare questo tipo di aiuto, chi volesse un consiglio per trovare un b&b a Palermo troverà in noi delle buone informazioni, perchè in questi sette anni abbiamo avuto modo di conoscere dei meravigliosi “colleghi”, gente che ha intrapreso questa esperienza con la stessa idea nostra, persone con cui abbiamo collaborato senza “scopo di lucro”, ma solo per solidarietà, primi fra tutti Raffaella e Daniele.

domenica 14 febbraio 2010

Palermo: San Valentino, traffico vietato, “Molto rumore per nulla”.

Oggi a Palermo c’è il traffico vietato, pena multa salata. Motivo, lo smog.

Lungi da me l’idea di schierarmi dalla parte delle automobili, del traffico e dello smog, tutte cose che non mi piacciono molto.

Le auto, almeno così come sono pensate, inquinano molto, l’aria diventa irrespirabile, i polmoni diventano color grigio topo, come i nostri bei monumenti prima di essere restaurati. Le auto sono tante, guizzano impazzite da una parte all’altra rischiando di investire qualcuno, si bloccano nelle strade costipate creando un tappeto multicolore dentro il quale è difficile districarsi, sono rumorose, quando tutte insieme suonano i clacson non hanno di certo l’effetto di una banda popolare, non c’è più posto dove parcheggiarle, ogni angolino di marciapiede ne contiene una, creando al pedone un effetto slalom non proprio rilassante.

Certo le auto hanno dato lavoro qui in Sicilia, migliaia di famiglie a Termini Imerese hanno trovato il loro sostentamento, ma il mercato è il mercato, e quindi le auto così come sono, brutte e inquinanti continueranno ad essere prodotte, però in paesi dove gli operai possono essere maggiormente sfruttati, le città saranno ancora piene di auto e gli operai di Termini rimarranno a piedi. Forse gli incentivi potevano servire a produrre auto non inquinanti, ma io non sono un’esperta in materia e quindi passo all’argomento successivo.

Fatte tutte queste considerazioni, ripenso ad oggi: traffico vietato a Palermo. Solo oggi, 14 Febbraio, San Valentino, in pieno Carnevale.

Cosa sarà Palermo oggi senza auto?

In altri luoghi si potrebbero immaginare gruppi di persone e di famigliole che allegre si avvicineranno alla prima fermata dell’autobus (magari elettrico) e in pochi minuti andranno al centro a far passeggiare i bambini vestiti per il Carnevale, coppie che mano per la mano prenderanno il primo tram e raggiungeranno il loro ristorantino preferito per festeggiare il loro amore, oppure le metropolitane più affollate del solito per portare in giro la gente a fare compere.
Ma a Palermo gli autobus elettrici sono fermi in garage, quelli inquinanti sono pochi, sporchi, superaffollati, e se si è fortunati ne passa uno ogni mezz’ora, ma se ti trovi in periferia puoi aspettare almeno un’ora e poi cambiarne almeno tre per percorrere nemmeno 15 chilometri. Ma si sa, l’attesa fa bene alla salute, riduce lo stress, se c’è freddo è ancora meglio, si rinfrescano le idee, e se piove poi è una vera pacchia cantare tutti in coro “Singin' in the Rain”....

Ma c’è sempre il tram, o la metro! Dimenticavo, da noi non ci sono, il tram non esiste più da decenni, la finta metropolitana ha pochissime fermate. Si può prendere il taxi? Basterà pagare 10, 15 euro per percorrere nemmeno 5 chilometri, un vero affare! Si potrà usare la bicicletta, coppiette in tandem a passeggiar...certo non ci sono piste ciclabili, le strade sono tutte rattoppate, ma meglio di niente. Si potrà comunque camminare a piedi, sempre che non si abiti in periferia, allora bisognerà allenarsi bene prima, per fare almeno un’ora di passeggiata (oggi sotto la pioggia), sperando che ci siano marciapiedi liberi e che i tombini non siano ancora esplosi facendo come al solito riempire di acqua le strade e spruzzando come funghi.

Oggi la gente rimarrà a casa. Questa è la verità. Niente passeggiate, qui siamo pure lagnusi (pigri), niente sfilate di Carnevale, e nessuna coppia andrà in bicicletta al ristorante. Tutti a casa ad aspettare l’ora x per riprendere l’auto...

Immagino la gioia di quei ristoratori che dopo un anno di crisi, attendevano questa giornata, la festa commerciale per antonomasia, per guadagnare qualcosa, per tirare avanti ancora un po’, immagino la gioia dei negozianti che speravano di vendere un cuore di cioccolatini all’ultimo momento, un mazzo di rose, o un palloncino per i bambini vestiti da gormiti e da winks. Quanto saranno felici nel vedere vuota la città!

Che ideona, che lungimiranza, non si poteva pensare a un giorno migliore, e da domani poi sarà tutto uguale, smog e traffico compresi.
Devo dire in più che le informazioni riguardanti il traffico bloccato sono state pochissime e confuse, si spera forse in qualche trasgressore involontario, così le multe riempiranno le casse del Comune.

E’ proprio vero, “tutto cambia, perchè tutto rimanga uguale”. “Molto rumore per nulla”.
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AGGIORNAMENTI ore 18:00 circa.

Fa comunque uno strano effetto vedere Palermo così, mai strade tanto vuote, solo pochi trasgressori...




Visto che ho scritto un post non proprio ottimista, ecco la foto di un nostro grande amore, il mare!

martedì 2 febbraio 2010

Tony Canto "Vera". Un regalo bellissimo

Ho ricevuto una lettera, con un regalo bellissimo, un cd di un nostro conterraneo che non conoscevo ma che mi è piaciuto tantissimo. Volevo condividerlo.

Grazie carissimi amici milanesi terroni come noi!

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