Anche oggi che è San Giuseppe non potevano mancare la pasta con le sarde e le sfinci di San Giuseppe, solo due foto e pochissime parole...
venerdì 19 marzo 2010
giovedì 18 marzo 2010
Fegato in agrodolce alla palermitana, la vera versione “du ficatu ri setticannola”
Oggi un piatto particolare e gustoso che è la versione originale di una pietanza tipicamente palermitana che ha però la caratteristica di essere un “vero falso d’autore”.
Cercherò di essere più chiara comprendendo che questo giro di parole è un po’ arzigogolato. Ho già raccontato in altro post che a Palermo ci sono dei piatti popolari e poveri che nascono come imitazioni di versioni più “ricche”, che venivano preparate nelle corti dei nobili siciliani, dai cuochi francesi ( Monsù). Questi piatti hanno la caratteristica di contenere degli ingredienti meno costosi degli originali che, ben mimetizzati, sostituiscono alcuni ingredienti inaccessibili alla gente del popolo. Così ad esempio esistono le fave a coniglio (ma il coniglio non c’è), la caponata di melanzane (senza il pesce capone), le sarde a beccafico (ma degli uccelletti chiamati beccafico nemmeno l’ombra), o le quaglie (che sono melanzane fritte, e il pennuto è prontamente volato via), etc...
Un altro esempio, che poi è il rifacimento del piatto di cui parlerò adesso è “u ficatu ri setticannuola” (il fegato dei settecannoli), dove il fegato è assente, ma ben sostituito dalla zucca rossa, e per spiegare l’appellativo “settecannoli”, ci sono due leggende, una che si riferisce al quartiere povero dei Settecannoli (dove il piatto con la zucca sarebbe stato inventato), oppure alla piazza della Vucciria, che al suo interno ha la famosa fontana del Garraffello, che conta sette cannelli (cannoli) per l’uscita della miracolosa acqua (altra legenda), dove gli ambulanti avrebbero venduto il piatto a base di zucca rossa.
Ma andiamo alla versione originale del piatto, ovvero quella fatta con il vero fegato. In realtà anche questo è un piatto povero, se infatti trattasi di carne, sempre di frattaglie si sta parlando. E’ una ricetta tipicamente palermitana, dove elementi fondamentali sono l’agrodolce ed anche la frittura (ricordo che noi palermitani siamo definiti “pariddara” che significa pressappoco friggi-tutto).
E’ un piatto che non tutti vogliono assaggiare, perchè il fegato non sempre è gradito per il suo gusto dolciastro e particolare, ma che in realtà grazie alla sua elaborazione assume un gusto molto buono e perde le tipiche caratteristiche spiacevoli del fegato, quindi, vegetariani a parte, invito tutti a provare questa ricetta, in caso di totale rifiuto, non posso fare che consigliare la versione ancora più povera a base di zucca, ovvero il più famoso “ficatu ri setticannuola”.
Questo piatto a noi palermitani veniva consigliato dalle nonne fin dall’infanzia, non so se è legenda popolare o se c’è un fondamento scientifico, ma si usava dire: “il fegato fa bene ai bambini”, ora devo dire che un piatto fritto, untuoso e con l’agrodolce, non so se proprio rappresentasse il modo migliore per nutrire i piccoli esemplari di palermitanini doc, ma è così che molti di noi sono cresciuti, e le conseguenze si vedono...
Ed ecco finalmente la ricetta!
Ingredienti: alcune fettine (non troppo doppie) di fegato (bovino), pangrattato, due cucchiai di aceto, un cucchiaino di zucchero, olio di semi, olio evo, aglio, sale e pepe.
Lavorazione: passare le fettine nel pangrattato e friggerle in una padella con abbondante olio di semi. Toglierle dall’olio e metterle in un piatto coperto di carta assorbente. Preparare un’altra padella con abbondante olio evo e far scaldare degli spicchi di aglio tagliati a fettine (per lungo). Aggiungere un pizzico di sale e pepe, due cucchiai di aceto e lo zucchero e far evaporare. Adagiare nella padella le fettine precedentemente fritte e farle assaporare nel sughetto da entrambi i lati. Mettere in un piatto e servire a tavola.
Per mangiarlo, vista la sua pesantezza, ci vuole proprio del fegato!
Cercherò di essere più chiara comprendendo che questo giro di parole è un po’ arzigogolato. Ho già raccontato in altro post che a Palermo ci sono dei piatti popolari e poveri che nascono come imitazioni di versioni più “ricche”, che venivano preparate nelle corti dei nobili siciliani, dai cuochi francesi ( Monsù). Questi piatti hanno la caratteristica di contenere degli ingredienti meno costosi degli originali che, ben mimetizzati, sostituiscono alcuni ingredienti inaccessibili alla gente del popolo. Così ad esempio esistono le fave a coniglio (ma il coniglio non c’è), la caponata di melanzane (senza il pesce capone), le sarde a beccafico (ma degli uccelletti chiamati beccafico nemmeno l’ombra), o le quaglie (che sono melanzane fritte, e il pennuto è prontamente volato via), etc...
Un altro esempio, che poi è il rifacimento del piatto di cui parlerò adesso è “u ficatu ri setticannuola” (il fegato dei settecannoli), dove il fegato è assente, ma ben sostituito dalla zucca rossa, e per spiegare l’appellativo “settecannoli”, ci sono due leggende, una che si riferisce al quartiere povero dei Settecannoli (dove il piatto con la zucca sarebbe stato inventato), oppure alla piazza della Vucciria, che al suo interno ha la famosa fontana del Garraffello, che conta sette cannelli (cannoli) per l’uscita della miracolosa acqua (altra legenda), dove gli ambulanti avrebbero venduto il piatto a base di zucca rossa.
Ma andiamo alla versione originale del piatto, ovvero quella fatta con il vero fegato. In realtà anche questo è un piatto povero, se infatti trattasi di carne, sempre di frattaglie si sta parlando. E’ una ricetta tipicamente palermitana, dove elementi fondamentali sono l’agrodolce ed anche la frittura (ricordo che noi palermitani siamo definiti “pariddara” che significa pressappoco friggi-tutto).
E’ un piatto che non tutti vogliono assaggiare, perchè il fegato non sempre è gradito per il suo gusto dolciastro e particolare, ma che in realtà grazie alla sua elaborazione assume un gusto molto buono e perde le tipiche caratteristiche spiacevoli del fegato, quindi, vegetariani a parte, invito tutti a provare questa ricetta, in caso di totale rifiuto, non posso fare che consigliare la versione ancora più povera a base di zucca, ovvero il più famoso “ficatu ri setticannuola”.
Questo piatto a noi palermitani veniva consigliato dalle nonne fin dall’infanzia, non so se è legenda popolare o se c’è un fondamento scientifico, ma si usava dire: “il fegato fa bene ai bambini”, ora devo dire che un piatto fritto, untuoso e con l’agrodolce, non so se proprio rappresentasse il modo migliore per nutrire i piccoli esemplari di palermitanini doc, ma è così che molti di noi sono cresciuti, e le conseguenze si vedono...
Ed ecco finalmente la ricetta!
Ingredienti: alcune fettine (non troppo doppie) di fegato (bovino), pangrattato, due cucchiai di aceto, un cucchiaino di zucchero, olio di semi, olio evo, aglio, sale e pepe.
Lavorazione: passare le fettine nel pangrattato e friggerle in una padella con abbondante olio di semi. Toglierle dall’olio e metterle in un piatto coperto di carta assorbente. Preparare un’altra padella con abbondante olio evo e far scaldare degli spicchi di aglio tagliati a fettine (per lungo). Aggiungere un pizzico di sale e pepe, due cucchiai di aceto e lo zucchero e far evaporare. Adagiare nella padella le fettine precedentemente fritte e farle assaporare nel sughetto da entrambi i lati. Mettere in un piatto e servire a tavola.
Per mangiarlo, vista la sua pesantezza, ci vuole proprio del fegato!
venerdì 12 marzo 2010
Il mitico sfincione palermitano.
Lo sfincione a Palermo non è solo un cibo, un piatto prelibato e tipico, è qualcosa di più, un modo di essere, un mondo a parte, uno status symbol, Palermo è simile ai suoi cibi, dunque somiglia anche allo sfincionello (spesso si usa con affetto il diminutivo), untuosa al punto giusto, irresistibile, gustosa, ricca di sapori, indigesta al punto giusto.
Visto che tutto si evolve, anche il marketing dello sfincionello ha visto i suoi mutamenti, adesso gli ambulanti sono organizzati in una sorta di franchising, hanno tutti il famoso “lapino” (moto ape), acquistano il prodotto in un forno che a me risulta misterioso, ma ho scoperto trovarsi vicino Porta Sant’Agata, e non urlano più, hanno dei nastri pre-registrati (tutti uguali, con la medesima voce narrante) che con un megafono diffondono per le vie della città dei nuovi slogan, che adesso parlano di colori e profumi, la lingua è però sempre la stessa del passato, il dialetto palermitano che risulta sempre efficacissimo.
Così è facile poter sentire risuonare con voce cantilenante “ Uora, uora u sfurnavu” (l’ho sfornato appena adesso), o pressappoco : “Chi ciavuru, u culuri c’ha taliari, è beddu cavuru, vassia veni a mancia, sunnu cuosi ra bella vieru” (Che buon profumo, devi guardare il colore, è ancora caldo, vossignoria, venga a mangiarlo, sono cose fatte nel modo giusto).
E quando poi ci si avvicina alla motoape si trova un esperto ambulante che aggiunge svelto un filo d’olio d’oliva (visto che era poco unto...) e porge quella che è una vera delizia, morbida e gustosa, forse polverosa, ma sempre deliziosa, e come direbbe qualcuno. “dopo un solo morso si scordano tutti i guai”. foto Judy Witts
Una chicca da non perdere: "l'abbanniata"
Aggiornamenti da qui.
I lavori di impacchettamento procedono... è una fatica in tutti i sensi... si scoprono tante cose che si aveva del tutto dimenticato di avere. Un abbraccio a tutti per la solidarietà, mi sono emozionata, grazie sento questa vicinanza!
Evelin
Lo sfincione si può fare in casa, comprarlo dai tanti fornai della città, ma mai nulla è pari all’acquistarlo dallo “sfincionaro” dotato di “lapino” (motoape), in questo caso oltre al gusto, saranno nobilitati tutti i nostri sensi, dall’odorato all’udito, e si entrerà a far parte dell’essenza della città, ci si immergerà rapidamente e con irruenza nel suo mondo più affascinante, popolare, arcaico.
Lo sfincione anche se nasce come un cibo per le feste è un piatto povero. Come avviene per la pizza, l’idea di fondo sta nell’aggiungere alla pasta di pane “schietta” (semplice) una “cuonza” (condimento) per arricchirne il gusto. Nel caso dello sfincione, la cuonza è ottenuta usando prodotti semplici e poco costosi (cipolla, acciughe, cacio cavallo, pomodoro) che però ben cucinati e mescolati tra loro conferiscono al tutto un gusto ed un profumo inebrianti.
Fu probabilmente inventato dalle suore del monastero di San Vito. Devo dire che le suore a Palermo, non so se abbiano contribuito all’elevazione dello spirito dei cittadini, ma di certo hanno avuto un ruolo predominante nella fondazione del nostro patrimonio gastronomico, sono state loro ad inventare la rosticceria, le cassatine, la frutta martorana etc. Inizialmente gli sfincioni venivano preparati durante le feste natalizie, ancora oggi è un rito insostituibile mangiarli durante la vigilia della festa della Madonna, durante quel giorno, girando per Palermo è possibile sentire nell’aria un intenso odore di cipolla. Altri momenti fondamentali per la vita dei palermitani, in cui lo sfincione non poteva mancare, erano le feste di fidanzamento, o meglio il primo incontro tra le due famiglie coinvolte.
Successivamente lo sfincione è diventato un cibo per tutti i momenti, un cibo da fast food, da mangiare a colazione o a tutte le ore, facilmente reperibile in tutta la città perchè gli sfincionellari ambulanti portano la loro deliziosa mercanzia dappertutto.
Lo sfincione potrebbe dunque sembrare una pizza dal condimento un po’ particolare. In realtà ciò che lo caratterizza e differenzia dalla pizza, non è tanto la conza, ma il tipo di pasta, ed è infatti dalla pasta che prende il suo nome.
La parola sfincione, come anche sfincia, origina dal latino “spongia” (spugna) o ovviamente dall’arabo “sfang” (frittella), e si riferisce quindi al suo aspetto e alla sua consistenza spugnosa, morbida, porosa. Io dico sempre che noi palermitani siamo “lagnusi” (pigri), e forse lo siamo anche nel mangiare, troppa fatica nel masticare una pizza croccante, le nostre mandibole apprezzano maggiormente una pasta morbidissima e soffice! L’unico che dovrà realmente faticare è l’apparato digerente, quello impiegherà delle ore, d’altra parte si tratta di un organismo involontario e noi palermitani non possiamo farci niente, dovremo solo sopportare il “sali e scendi” di cipolla and company.
Ma adesso arriviamo al meglio di tutto il discorso relativo allo sfincione, ovvero il marketing. So che gli inglesismi ben poco si adattano all’argomento che di anglosassone non ha nulla, ma di questi tempi per far ben capire l’importanza della pubblicità si parla così!
Oggi, per vendere qualcosa la pubblicità è tutto, ma questo forse valeva anche nel passato, di certo con forme differenti, ed è così che senza scomodare esperti manager del settore, psicologi del mercato, etc., anche gli arabi ed i siciliani in genere sperimentarono un metodo vincente, “’l’abbanniata”. Trattasi di declamare ad alta voce degli slogan eccezionali, dai forti contenuti, dal linguaggio accattivante e comunicativo.
Nel caso dello sfincione palermitano gli slogan, per colpire, dovevano (e devono) parlare di unto, di sporco e di odore intenso (effetto shock, più delle foto di Oliviero Toscani), il gergo è necessariamente il dialetto siciliano, comprensibilissimo dalla maggior parte della gente (più della bella lingua italica di origini dantesche), condito da un forte accento palermitano (che ha l’effetto di rendere il tutto popolare ed ironico).
Così la frase più celebre da declamare nel passato era: “ Va tastalu, è scarsu r’uogghiu e chinu i pruvulazzu” che tradotto significa: “corri ad assaggiarlo, scarseggia in quanto ad olio ma è colmo di polvere”, che fa capire quanto fosse importante anche nel passato la lotta all’ obesità (potrebbe quindi usare questa frase Mrs Michelle Obama), e quanto apprezzata però fosse la polvere (che rende tutto “stile retrò” e molto vicino “all’uomo comune”... cose che funzionano sempre), anche perchè all’epoca non c’erano automobili e non si parlava ancora di polveri sottili.
Lo sfincione anche se nasce come un cibo per le feste è un piatto povero. Come avviene per la pizza, l’idea di fondo sta nell’aggiungere alla pasta di pane “schietta” (semplice) una “cuonza” (condimento) per arricchirne il gusto. Nel caso dello sfincione, la cuonza è ottenuta usando prodotti semplici e poco costosi (cipolla, acciughe, cacio cavallo, pomodoro) che però ben cucinati e mescolati tra loro conferiscono al tutto un gusto ed un profumo inebrianti.
Fu probabilmente inventato dalle suore del monastero di San Vito. Devo dire che le suore a Palermo, non so se abbiano contribuito all’elevazione dello spirito dei cittadini, ma di certo hanno avuto un ruolo predominante nella fondazione del nostro patrimonio gastronomico, sono state loro ad inventare la rosticceria, le cassatine, la frutta martorana etc. Inizialmente gli sfincioni venivano preparati durante le feste natalizie, ancora oggi è un rito insostituibile mangiarli durante la vigilia della festa della Madonna, durante quel giorno, girando per Palermo è possibile sentire nell’aria un intenso odore di cipolla. Altri momenti fondamentali per la vita dei palermitani, in cui lo sfincione non poteva mancare, erano le feste di fidanzamento, o meglio il primo incontro tra le due famiglie coinvolte.
Successivamente lo sfincione è diventato un cibo per tutti i momenti, un cibo da fast food, da mangiare a colazione o a tutte le ore, facilmente reperibile in tutta la città perchè gli sfincionellari ambulanti portano la loro deliziosa mercanzia dappertutto.
Lo sfincione potrebbe dunque sembrare una pizza dal condimento un po’ particolare. In realtà ciò che lo caratterizza e differenzia dalla pizza, non è tanto la conza, ma il tipo di pasta, ed è infatti dalla pasta che prende il suo nome.
La parola sfincione, come anche sfincia, origina dal latino “spongia” (spugna) o ovviamente dall’arabo “sfang” (frittella), e si riferisce quindi al suo aspetto e alla sua consistenza spugnosa, morbida, porosa. Io dico sempre che noi palermitani siamo “lagnusi” (pigri), e forse lo siamo anche nel mangiare, troppa fatica nel masticare una pizza croccante, le nostre mandibole apprezzano maggiormente una pasta morbidissima e soffice! L’unico che dovrà realmente faticare è l’apparato digerente, quello impiegherà delle ore, d’altra parte si tratta di un organismo involontario e noi palermitani non possiamo farci niente, dovremo solo sopportare il “sali e scendi” di cipolla and company.
Ma adesso arriviamo al meglio di tutto il discorso relativo allo sfincione, ovvero il marketing. So che gli inglesismi ben poco si adattano all’argomento che di anglosassone non ha nulla, ma di questi tempi per far ben capire l’importanza della pubblicità si parla così!
Oggi, per vendere qualcosa la pubblicità è tutto, ma questo forse valeva anche nel passato, di certo con forme differenti, ed è così che senza scomodare esperti manager del settore, psicologi del mercato, etc., anche gli arabi ed i siciliani in genere sperimentarono un metodo vincente, “’l’abbanniata”. Trattasi di declamare ad alta voce degli slogan eccezionali, dai forti contenuti, dal linguaggio accattivante e comunicativo.
Nel caso dello sfincione palermitano gli slogan, per colpire, dovevano (e devono) parlare di unto, di sporco e di odore intenso (effetto shock, più delle foto di Oliviero Toscani), il gergo è necessariamente il dialetto siciliano, comprensibilissimo dalla maggior parte della gente (più della bella lingua italica di origini dantesche), condito da un forte accento palermitano (che ha l’effetto di rendere il tutto popolare ed ironico).
Così la frase più celebre da declamare nel passato era: “ Va tastalu, è scarsu r’uogghiu e chinu i pruvulazzu” che tradotto significa: “corri ad assaggiarlo, scarseggia in quanto ad olio ma è colmo di polvere”, che fa capire quanto fosse importante anche nel passato la lotta all’ obesità (potrebbe quindi usare questa frase Mrs Michelle Obama), e quanto apprezzata però fosse la polvere (che rende tutto “stile retrò” e molto vicino “all’uomo comune”... cose che funzionano sempre), anche perchè all’epoca non c’erano automobili e non si parlava ancora di polveri sottili.
Visto che tutto si evolve, anche il marketing dello sfincionello ha visto i suoi mutamenti, adesso gli ambulanti sono organizzati in una sorta di franchising, hanno tutti il famoso “lapino” (moto ape), acquistano il prodotto in un forno che a me risulta misterioso, ma ho scoperto trovarsi vicino Porta Sant’Agata, e non urlano più, hanno dei nastri pre-registrati (tutti uguali, con la medesima voce narrante) che con un megafono diffondono per le vie della città dei nuovi slogan, che adesso parlano di colori e profumi, la lingua è però sempre la stessa del passato, il dialetto palermitano che risulta sempre efficacissimo.
Così è facile poter sentire risuonare con voce cantilenante “ Uora, uora u sfurnavu” (l’ho sfornato appena adesso), o pressappoco : “Chi ciavuru, u culuri c’ha taliari, è beddu cavuru, vassia veni a mancia, sunnu cuosi ra bella vieru” (Che buon profumo, devi guardare il colore, è ancora caldo, vossignoria, venga a mangiarlo, sono cose fatte nel modo giusto).
E quando poi ci si avvicina alla motoape si trova un esperto ambulante che aggiunge svelto un filo d’olio d’oliva (visto che era poco unto...) e porge quella che è una vera delizia, morbida e gustosa, forse polverosa, ma sempre deliziosa, e come direbbe qualcuno. “dopo un solo morso si scordano tutti i guai”.
RICETTA:
Ingredienti:
Per la pasta: 250 gr di farina 00, 250 gr. di farina rimacinata, 25 gr. di lievito di birra, 250 g (circa) di acqua, 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaino di sale, una tazzina di olio evo.
Per il condimento:4 cipolle, 300 gr. di caciocavallo fresco (a pezzetti), 50 gr. di caciocavallo grattuggiato, 100 gr. di filetti di acciuga sott'olio o sarde salate, 500 gr. di pomodori pelati, una manciata di origano, pangrattato tostato, un pizzico di zucchero, olio extravergine d'oliva, sale e pepe.
Per il condimento:4 cipolle, 300 gr. di caciocavallo fresco (a pezzetti), 50 gr. di caciocavallo grattuggiato, 100 gr. di filetti di acciuga sott'olio o sarde salate, 500 gr. di pomodori pelati, una manciata di origano, pangrattato tostato, un pizzico di zucchero, olio extravergine d'oliva, sale e pepe.
PREPARAZIONE:
Setacciare la farina, metterla a fontana in un recipiente. Sciogliere il lievito con un po’ di acqua tiepida, metterlo al centro della fontana ed aggiungere l’olio, il sale e lo zucchero. Impastare, aggiungendo a poco a poco acqua tiepida. La consistenza finale dovrà essere molto morbida, una via di mezzo tra il panetto della pizza e la pastella. Coprire con un panno (e una coperta di lana) e lasciare lievitare per 2 ore. Impastare una seconda volta in modo delicato e far lievitare per un’altra ora. A questo punto si può condire.
Per il condimento, affettare le cipolle sottilmente e farle appassire in un tegame con olio extra vergine di oliva. Unire i pomodori pelati , aggiungere un pizzico di zucchero, il pepe, poco sale e un’acciuga e far cuocere per 20 minuti circa.
Ungere una teglia e spolverare del pangrattato. Versare l’impasto ed aiutati da un po’ di olio, stenderla (spessore circa 2 cm) e fare delle fossette con le dita. Cospargere la superficie con pezzetti di caciocavallo (fromaggio) e di acciughe facendoli leggermente sprofondare nella pasta.Versare e distendere su tutta la superficie il sugo, spolverare con il caciocavallo grattugiato, con il pangrattato (precedentemente passato nella pentola sporca di sugo, per insaporirsi) e con l’origano. Irrorare con un filo d’olio e lasciare riposare per mezz’ora circa. Far riscaldare il forno a 250° circa, infornare per 30 minuti circa. E... Buon appetito.
Setacciare la farina, metterla a fontana in un recipiente. Sciogliere il lievito con un po’ di acqua tiepida, metterlo al centro della fontana ed aggiungere l’olio, il sale e lo zucchero. Impastare, aggiungendo a poco a poco acqua tiepida. La consistenza finale dovrà essere molto morbida, una via di mezzo tra il panetto della pizza e la pastella. Coprire con un panno (e una coperta di lana) e lasciare lievitare per 2 ore. Impastare una seconda volta in modo delicato e far lievitare per un’altra ora. A questo punto si può condire.
Per il condimento, affettare le cipolle sottilmente e farle appassire in un tegame con olio extra vergine di oliva. Unire i pomodori pelati , aggiungere un pizzico di zucchero, il pepe, poco sale e un’acciuga e far cuocere per 20 minuti circa.
Ungere una teglia e spolverare del pangrattato. Versare l’impasto ed aiutati da un po’ di olio, stenderla (spessore circa 2 cm) e fare delle fossette con le dita. Cospargere la superficie con pezzetti di caciocavallo (fromaggio) e di acciughe facendoli leggermente sprofondare nella pasta.Versare e distendere su tutta la superficie il sugo, spolverare con il caciocavallo grattugiato, con il pangrattato (precedentemente passato nella pentola sporca di sugo, per insaporirsi) e con l’origano. Irrorare con un filo d’olio e lasciare riposare per mezz’ora circa. Far riscaldare il forno a 250° circa, infornare per 30 minuti circa. E... Buon appetito.
Una chicca da non perdere: "l'abbanniata"
Aggiornamenti da qui.
I lavori di impacchettamento procedono... è una fatica in tutti i sensi... si scoprono tante cose che si aveva del tutto dimenticato di avere. Un abbraccio a tutti per la solidarietà, mi sono emozionata, grazie sento questa vicinanza!
Evelin
mercoledì 3 marzo 2010
Interruzioni, news da un ex b&b, una nuova pagina.
Eccomi di nuovo qui. Dove ero finita? Da nessuna parte direi, almeno fisicamente, invece il pensiero in questi giorni ha fatto il giro del mondo...
Cercherò di raccogliere tutta l’ironia e l’umorismo che risiede in me per raccontare queste ultime settimane.
C’è chi vuole il processo breve, perchè si dice che i processi durino molto tempo, anche se tutti sappiamo che il processo non diventerebbe più rapido, ma soltanto verrebbe interrotto prima di avere il suo compimento. C’è chi dice che ci sono le toghe rosse, un manipolo di comunisti che fanno i magistrati e che evidentemente se la prendono con i padroni.
Cosa c’entro io con tutto ciò?
Non ci hanno arrestati, no, non ci hanno trovati a chiacchierare di affari, a ridere sui i terremotati o a contrattare le massaggiatrici (bè, la cervicale ce l’ho pure io, ma al momento uso gli antinfiammatori).
Il nostro processo è stato per sfratto, e non è stato un processo troppo lungo, ne tanto meno abbiamo trovato le toghe rosse. Infatti abbiamo... velocemente perso, paradossi della giustizia, e visto che noi siamo la parte debole (affittuari e non padroni di casa) le toghe erano non proprio rosse...
In un processo le ragioni non sono mai tutte da una parte (anche se noi alcune le avevamo), quindi non racconterò i fatti che sarebbero contorti e complicati, fatto è che bisogna accettare la realtà, così siamo arrivati alla conclusione, dobbiamo lasciare la nostra casa e b&b entro la fine di questo mese. Ora, sapevo che saremmo dovuti andare via, ma pensavo fra qualche annetto, ed invece le cose sono precipitate e oggi ho cominciato a impacchettare.
Così l’Agave b&b almeno per un po’ non ci sarà, sperando che prima o poi torni ad esistere, noi cercheremo rifugio da qualche parte, insomma perdere casa e lavoro in un colpo solo è un poco traumatico ma stiamo cercando di reagire come meglio possiamo.
Avevo cercato un modo per scrivere questo post, ho trovato questo...
Altra comunicazione, non pensate di “liberarvi di me”, il blog è nato certamente anche per dare visibilità al nostro bed and breakfast, ma poi è diventato per me una vera passione, passione nel condividere l’amore per la mia terra, divertimento nel comunicare con tante persone e blogger meravigliosi, amore per la scrittura, strumento per distrarmi nei momenti di tristezza.
La pubblicità al nostro b&b, che per noi più che una attività commerciale, è stato (e spero sarà) piuttosto un’esperienza meravigliosa che ci ha arricchiti umanamente, era solo un pretesto, una spinta per sconfiggere l’iniziale timidezza ad entrare nel mondo dei blog, a pubblicare i miei scritti. Adesso che ho cominciato, credo proprio che continuerò a parlare di Sicilia e sicilianità, di cibo e di tradizioni, è la cosa che mi piace fare, magari ci sarà qualche piccola interruzione solo per problemi tecnici, ma insomma, continuerò ancora ad “atturrare” (rompere le scatole) tutti quelli che avranno la pazienza di leggermi!
P.s. mi scuso con tutti gli amici, ospiti, persone che ci conoscono, ai quali ancora non abbiamo avuto il modo di comunicare personalmente tutto ciò, ma di fatto solo ieri è stata presa la fatidica decisione, dopo un mese di incertezze.
P.s. chi volesse avere informazioni per i propri viaggi in Sicilia, può sempre scriverci, a noi ha fatto sempre piacere poter dare questo tipo di aiuto, chi volesse un consiglio per trovare un b&b a Palermo troverà in noi delle buone informazioni, perchè in questi sette anni abbiamo avuto modo di conoscere dei meravigliosi “colleghi”, gente che ha intrapreso questa esperienza con la stessa idea nostra, persone con cui abbiamo collaborato senza “scopo di lucro”, ma solo per solidarietà, primi fra tutti Raffaella e Daniele.
Cercherò di raccogliere tutta l’ironia e l’umorismo che risiede in me per raccontare queste ultime settimane.
C’è chi vuole il processo breve, perchè si dice che i processi durino molto tempo, anche se tutti sappiamo che il processo non diventerebbe più rapido, ma soltanto verrebbe interrotto prima di avere il suo compimento. C’è chi dice che ci sono le toghe rosse, un manipolo di comunisti che fanno i magistrati e che evidentemente se la prendono con i padroni.
Cosa c’entro io con tutto ciò?
Non ci hanno arrestati, no, non ci hanno trovati a chiacchierare di affari, a ridere sui i terremotati o a contrattare le massaggiatrici (bè, la cervicale ce l’ho pure io, ma al momento uso gli antinfiammatori).
Il nostro processo è stato per sfratto, e non è stato un processo troppo lungo, ne tanto meno abbiamo trovato le toghe rosse. Infatti abbiamo... velocemente perso, paradossi della giustizia, e visto che noi siamo la parte debole (affittuari e non padroni di casa) le toghe erano non proprio rosse...
In un processo le ragioni non sono mai tutte da una parte (anche se noi alcune le avevamo), quindi non racconterò i fatti che sarebbero contorti e complicati, fatto è che bisogna accettare la realtà, così siamo arrivati alla conclusione, dobbiamo lasciare la nostra casa e b&b entro la fine di questo mese. Ora, sapevo che saremmo dovuti andare via, ma pensavo fra qualche annetto, ed invece le cose sono precipitate e oggi ho cominciato a impacchettare.
Così l’Agave b&b almeno per un po’ non ci sarà, sperando che prima o poi torni ad esistere, noi cercheremo rifugio da qualche parte, insomma perdere casa e lavoro in un colpo solo è un poco traumatico ma stiamo cercando di reagire come meglio possiamo.
Avevo cercato un modo per scrivere questo post, ho trovato questo...
Altra comunicazione, non pensate di “liberarvi di me”, il blog è nato certamente anche per dare visibilità al nostro bed and breakfast, ma poi è diventato per me una vera passione, passione nel condividere l’amore per la mia terra, divertimento nel comunicare con tante persone e blogger meravigliosi, amore per la scrittura, strumento per distrarmi nei momenti di tristezza.
La pubblicità al nostro b&b, che per noi più che una attività commerciale, è stato (e spero sarà) piuttosto un’esperienza meravigliosa che ci ha arricchiti umanamente, era solo un pretesto, una spinta per sconfiggere l’iniziale timidezza ad entrare nel mondo dei blog, a pubblicare i miei scritti. Adesso che ho cominciato, credo proprio che continuerò a parlare di Sicilia e sicilianità, di cibo e di tradizioni, è la cosa che mi piace fare, magari ci sarà qualche piccola interruzione solo per problemi tecnici, ma insomma, continuerò ancora ad “atturrare” (rompere le scatole) tutti quelli che avranno la pazienza di leggermi!
P.s. mi scuso con tutti gli amici, ospiti, persone che ci conoscono, ai quali ancora non abbiamo avuto il modo di comunicare personalmente tutto ciò, ma di fatto solo ieri è stata presa la fatidica decisione, dopo un mese di incertezze.
P.s. chi volesse avere informazioni per i propri viaggi in Sicilia, può sempre scriverci, a noi ha fatto sempre piacere poter dare questo tipo di aiuto, chi volesse un consiglio per trovare un b&b a Palermo troverà in noi delle buone informazioni, perchè in questi sette anni abbiamo avuto modo di conoscere dei meravigliosi “colleghi”, gente che ha intrapreso questa esperienza con la stessa idea nostra, persone con cui abbiamo collaborato senza “scopo di lucro”, ma solo per solidarietà, primi fra tutti Raffaella e Daniele.
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