domenica 19 dicembre 2010

I palermitani doc (alieni e non) e i Centri Commerciali

Ho scoperto che i palermitani amano il Centro Commerciale, in realtà lo sapevo già, ma ho avuto modo di osservare questa realtà personalmente. Io, palermitana aliena doc, contro ogni mia volontà, nel giro di pochissimo tempo, mi sono trovata a visitare i tre nuovi centri commerciali che hanno da poco aperto a Palermo e dintorni, constatando così la passione dei miei concittadini per tali luoghi.

I centri commerciali rappresentano una novità per Palermo, dove fino a poco tempo fa c’erano solo grandi ipermercati, dotati di milioni di prodotti di vario genere, ma nulla a che vedere con questi nuovi centri, che un po’ come il Mac Donald, hanno drogato i miei concittadini, abituandoli a nuovi sapori e a un nuovo stile di vita. Ma i palermitani si sa, si adattano a tutto, vengono affascinati dalle novità alle quali per nulla al mondo rinuncerebbero, ma non abbandonano le vecchie abitudini, e così credo che come sono riusciti a far coesistere i “moderni finti panini” a base di hamburger di “finta carne”, con i tradizionali, unti e bisunti “panini ca meusa”, potranno anche far convivere i moderni-finti “centri non storici a fini commerciali”, con i più antichi mercati, mercatini e negozi del vero centro storico (almeno così spero).

I Centri commerciali, dal mio punto di vista palermitano alieno doc sono degli strani luoghi, dove tutto è finto ed artificiale, dall’aria che si respira, all’atmosfera che si vive. Partiamo già dal deviato concetto di escursione termica che c’è nella filosofia di questi ambienti, dove l’idea principale è non solo produrre un clima del tutto artificiale, ma produrre uno sbalzo di temperatura disumana tra esterno e interno, ovverosia far soffocare e ardere dal caldo durante l’inverno (costringendo i clienti a spogliarelli improvvisati), e fare rabbrividire e congelare in estate (costringendo i clienti a portarsi maglioni e sciarpe altrimenti riposte in guardaroba). Ma non possono trovare una temperatura standard? Avranno di certo degli accordi occulti con le case farmaceutiche per la cura di reumatismi e raffreddori... (evviva la dietrologia!!!).

L’aria che si respira è quindi strana, artificiale, “confezionata” come i prodotti in vendita. Ma anche l’udito viene artificialmente accontentato, cosa dire della filodiffusione coatta? Ovunque si va si è assordati da una musica costante che dopo un po’ viene apparentemente ignorata, ma entra subdolamente nel cervello costringendo tutti a canticchiare interiormente (e in alcuni casi anche esternamente) ed a muoversi a ritmi latinoamericani. E se le nostre orecchie sono accontentate, anche il naso ha il suo contentino, gli odori sono dall’invitante al nauseabondo. Tanti ristorantini, bar e pizzerie all’interno del Centro emanano dei profumini di cibo che obbligano i mangioni come me a voler acquistare pizze, panini e gelati, ma visto che si deve resistere per motivi di peso e di tasca, quegli odori cominciano a provocare “un certo languorino” ed a Palermo diremmo “una specie di alammiccu”, che poco dopo si trasforma in disgusto e voglia di fuggire via.
E per finire anche la vista è artificialmente colpita da lustri e lustrini, marmi, finte aiuole con vegetazione tropicale, archi e piazze, negozi, prodotti vari, tutto invita allo shopping compulsivo e visto che qui si dice: “cu va a fiera senza un tarì, ci va cu una dogghia e sinni torna cu ttrì” (chi va alla fiera senza soldi ci va con un dolore e se ne torna con tre) meglio essere ben attrezzati!

Tutto al Centro commerciale è magnifico, bello, pulito (cosa strana che a Palermo avvenga), grande, ricco, talmente perfetto da essere insopportabilmente finto. Mi ricorda i villaggi turistici, dove ci sono fontane, bellissime costruzioni che imitano monumenti egiziani o arabi, vegetazioni, animazioni, musiche e balletti, finta allegria, tutte cose che inserite così mi danno un senso di repulsione tipo il trenino umano di capodanno.

Ma i palermitani doc, non alieni ed esauriti come me, apprezzano tutto questo lusso e con un certo stupore si meravigliano davanti alle finte piazze, alla pulizia (che di solito snobbano), e commentano: “che bel marmo, che belle piante, miii che pulito, hai visto c’è pure il ristorante...” e si divertono, e se nel villaggio turistico amano saltellare come invasati tra giochi aperitivi, serate danzanti, ginnastiche in piscina, sotto l’ausilio di animatori felicemente stressati (e mi è capitato veramente di vedere famigliole con padri di famiglia dall’aria paciosa e pigra, trasformarsi in insospettabili ballerini che al suon di “meneito” si scatenavano in ritmi suadenti, muovendo ogni muscolo, facendo molleggiare le proprie “panze” prominenti, urlando: “me gusta, si, si si, muovendo la caveza, si, si, si”), alla stessa maniera nei Centri Commerciali si esaltano, comprano, danzellano, urlano (sarà colpa della musica ad alto volume), inseguono i “picciriddi”(bambini) che scappano qua e la, mangiano e apprezzano.

E così ci vedi dentro tutte le tipologie umane e palermitane doc ben tenute sotto controllo da una serie infinita di vigilantes armati di cuffiette e radiotrasmettitori: le ragazzine con le frangette e i fermaglini che camminano a braccetto e tre a tre, i “picciuttieddi tasci” (ragazzini grezzi) che si “ammuttano tra loro” (si spintonano vicendevolmente), cercando di far colpo sulle ragazze, le famigliole con passeggini multipli, l’uomo pacioso con la panza prominente (quello del villaggio di cui sopra) che trascina la moglie, le signore eleganti con le buste piene, persino le coppie alternative con kefia, rasta e pearcing vari, e pure gli alieni come me che un po’ si disgustano, ma un po’ adorano anche osservare tutta questa bella varietà umana.




E così dopo tutto questo, in uno dei Centri che ho visto, c’era una cosa bella, all’esterno, nel parcheggio, la bella vista su una torre precedentemente inaccessibile,
ed in realtà molto affascinante.
Ecco, se si vuole, si trova sempre qualcosa di vero e di bello in ogni luogo, e se si vuole si può sempre ridere delle cose bizzarre della vita!

martedì 30 novembre 2010

La new entry nell’Agave world: il gatto Niki



Avevo una serie di argomenti di cui scrivere, ma certe volte alcuni eventi inattesi e per certi versi tragicomici prendono il sopravvento.

Il titolo di questo post potrebbe essere: noi e gli animali, una strana avventura.
Questo perchè il tema centrale di questa settimana sono gli animali e nella fattispecie i gatti.

Ma partiamo dalle origini. Io amo molto gli animali ( pur avendo paura dei cani randagi) ed in generale tutti gli esseri viventi, umani, vegetali ed animali, con qualche eccezione, tipo scarafaggi e topi. Però per diversi motivi non ho avuto mai rapporti molto stretti con animali domestici, se non canarini e una tartaruga che i miei genitori hanno da circa quindici anni.

Con i canarini ho uno strano rapporto perchè mio padre li alleva ed io, sarà per l’overdose a cui sono stata sottoposta o forse per un innato senso di libertà, non ho mai sopportato l’idea di vederli in gabbia e sentirli cantare come dei pazzi, qui si dice : “l’acieddu nta aggia o canta p’amuri o canta pi raggia” (l’uccello in gabbia canta per amore o per rabbia). E mai e poi mai avrei voluto un uccellino in casa mia. Ma la vita è strana e circa cinque anni fa ci capitò di andare ad una mostra di pittori impressionisti al Palazzo dei Normanni, una bella mostra della collezione Wurth (grandi capitalisti tedeschi con la passione per l’arte). Della mostra ricordo poco, perchè su una fontana trovammo un uccellino piccolissimo, tutto bagnato e preda di un gruppetto di colombe dispettose. Cosa fare? Dopo una breve consultazione una mia cara amica lo prese e lo mettemmo in una borsetta di stoffa e dopo una corsa a piedi ed una in auto lo portai dall’esperto, mio padre, che sentenziò: “non penso che sopravvivrà, prova a dargli il cibo ecc...”. Così fu adottato, nutrito da me con uno stuzzicadenti, nominato Wurth (malgrado i capitalisti), ed ora ha cinque anni ed è bello pimpante. Io lo guardo e dubitante mi dico: “Avrò fatto bene? Gli ho salvato la vita ma gli ho tolto la libertà”... Punti di vista.

Altro uccellino, un merlo, portato da una amica di un’amica che lo trovò caduto da un nido. Dopo una notte insonne a sentirlo pigolare ed i tentativi maldestri di nutrirlo, decisi di portarlo alla Lipu, così dopo averlo curato lo avrebbero liberato. Andavo a trovarlo tutti i giorni, ma il terzo giorno mi dissero che era morto...

Nel b&b decidemmo di non tenere animali, se non Wurth, per vari motivi, numero uno il regolamento condominiale, secondo la paura che gli ospiti potessero essere allergici o non gradissero, terzo le dimensioni della casa (piccolo il nostro spazio personale e senza ampi sbocchi esterni).

Ma adesso siamo in campagna e un gattino o un cagnolino ci potevano stare.
I cani mi piacciono... ma ad una certa distanza, lo so è stupido ma ho una certa paura, ricordo ancora il dalmata di una cara amica che mi inseguiva per giocare ed io che correvo intorno al tavolo ed ancora peggio quando durante una lunga passeggiata pomeridiana in spiaggia, un branco di cani randagi mi accerchiò girandomi intorno ed alla fine si impossessò del mio telo da mare (quanto mi piaceva!), che se non era per Massimo che alternava la dolcezza a momenti in cui abbaiava come loro, che ci inseguivano ringhiando, sarei rimasta stecchita sulla spiaggia trasformandomi io stessa in telo mare. Optavamo allora per un micino, ma non avevamo l’idea di andarcelo a cercare, speravamo di adottare un trovatello bisognoso di cure.

Così mi arriva una e-mail di mio zio che ha già due gatti. Mi annuncia che una bellissima gatta bianca, adulta, da un po’ si era stanziata nella loro villetta e loro cercavano in tutti i modi una famiglia che la adottasse.
Dopo alcune titubanze ci decidemmo a prenderla. E così pochi giorni fa, tutti soddisfatti e belli organizzati, ci portiamo la gatta a casa. Nemmeno mezz’ora e la gatta che fa? Scappa veloce come una lepre in mezzo alla campagna. E quella sera, pioggia, vento e gelo. Passiamo la notte (fino all’una) a cercarla, dotati di torcia elettrica, tra le fresche frasche, sotto la pioggia, niente. Avvisiamo gli zii (e soprattutto il cugino che vive con loro) che si disperano, arrivano qui il giorno successivo in tenuta da montanari e la cercano con noi ovunque. Nessuna traccia, ma i più affranti erano i veri padroni della gatta, ormai affezionatissimi alla candida creatura, pentitisi amaramente dell’averla regalata, e noi alquanto traumatizzati dall’averla persa. Il giorno successivo gli zii tornano, volantinano la foto del gatto in tutto il paese, scatta una sorta di chi l’ha visto in chiave felina, ed alla fine la ritrovano nella campagna e se la riportano a casa pronti ad adottarla per sempre (ma forse è lei che ha adottato loro).

Pochi giorni dopo mia cugina che è l’altra figlia dei miei zii, mi chiama. Lei ha cani, gatti, uccellini, tartarughe e ci manca poco ed alleva pure i topi, un po’ come faceva la mia nonnina (dalla quale evidentemente ha preso tutto il dna) che da bambina dava da mangiare a un piccolo topo, fino a quando non fu scoperta dai genitori, e che in età adulta aveva cinque gatti, due cani, un pappagallo etc (sarà per questo che mia madre invece non ha mai voluto animali in casa). La cuginona mi dice che ha un gattino, piccolo, rosso, tigrato, buono, ma in casa sua non c’è proprio spazio anche per lui, vuole darmelo. Io visto il trauma precedente faccio resistenze, magari è affezionata, e se poi scappa pure lui? Ma alla fine cediamo, ed ecco che il gattino arriva qui, si ambienta, si accoccola, gioca, mangia come un lupetto.
Come lo chiamiamo? Mia cugina per prenderci in giro dice: “ chiamatelo Silvio (a buon intenditore...)”, dopo un urlo di disapprovazione io dico: “ ma è un gatto rosso, un gattocomunista, allora chiamiamolo Niki (a buon intenditore)”. E Niki sia.
In realtà colore a parte, come ha decretato mio zio, più che un gattocomunista, visto quanto dorme è un gattocomodista, io direi un gatto lagnuso, vabè è il nostro gatto e non può essere altrimenti!

lunedì 22 novembre 2010

Sapone autoprodotto e il solito riassuntino

Limoni, aceto, acqua, sale... Cosa ho cucinato?

Gli ingredienti tipici della cucina siciliana ci sono quasi tutti, ci sono persino i limoni e l’aceto per l’agro dolce (bè in effetti il dolce manca), cosa sarà allora?
Non preoccupatevi, non è una bizzarra crema salata, non è uno strano condimento per il pesce, trattasi semplicemente di detersivo ecologico autoprodotto!



Sarà che vivere fuori dalla città cambia un po’ la vita, sarà che perdere un lavoro piacevole la cambia eccome, sarà che quando c’è la crisi della politica si cercano nuovi ideali, sarà che guardarsi intorno e vedere che le nuove montagne verdi (della sicula Marcella Bella), sono delle assolutamente meno poetiche montagne di immondizia multicolore,



insomma sarà per un insieme di cose che io sto diventando lievemente più ecologica, non troppo, mio malgrado, perchè rinunciare a delle comodità tipo l’automobile o la lavatrice è quasi impossibile per una lagnusa quale io sono, ma almeno un pò!

Prima di parlare di tutto questo però ci vuole un piccolo rewind, ovvero il mio solito riassuntino degli ultimi giorni dall’ultimo mio post ad oggi.

Come in questo periodo mi capita, faccio passare troppo tempo tra un post e l’altro, cosa alla quale cercherò di rimediare (almeno spero), ed improvvisamente mi rendo conto che sono trascorse settimane, a volte mesi e mi accorgo che seppure tutto sembri sempre uguale, sono invece accadute tante cose. E se l’ultima volta era passata l’estate tra case a Montecarlo, simboli verdi, delitti mediatici, etc adesso non è da meno. Se quegli eventi erano stati velocemente consumati e quasi dimenticati, ne sono accaduti di nuovi che alla identica velocità saranno macinati e poi gettati (nel dimenticatoio), proprio come i rifiuti di Terzigno e non solo.

Metafore del nostro paese, le discariche che esplodono, le alluvioni che devastano da nord a sud e mettono contro nord e sud, le domus che crollano, le escort (più o meno minorenni) che pullulano e vengono riciclate in nipoti di premier stranieri, le gru che ospitano immigrati rifiutati. E così via tra un coraggioso scrittore tanto amato quanto rinnegato, tra vecchie e nuove alleanze, attese di cambiamenti auspicabili e la paura gattopardesca che nulla mai si trasformi veramente...

Ed io nel mentre che ho fatto? Mi sono dedicata a lavori di restauro in questa nostra nuova casetta: inferriate, cancello, scala di ferro arrugginito da ritinteggiare, lavori in muratura per evitare crolli anche in questa domus (grazie all’aiuto del nostro supercugino tuttofare), raccolta di poche olive per produrre poco olio, trasformazione di vecchi piatti da gettare nell’immondizia e di carta di pane e volantini pubblicitari in piatti decorati a modo mio,

una giornata al mare d’autunno,
il solito sali e scendi da Palermo, l’intento di produrre meno rifiuti (siamo arrivati ad un solo sacchetto a settimana) grazie alla compostiera e al riutilizzo, il sapone fatto in casa, etc...

E adesso vai con il sapone. L’idea nasce grazie anche agli input del blog della fantastica Danda, l’idea nasce per ridurre i rifiuti ( non comprare sempre nuovi flaconi di sapone che poi vanno gettati nell’immondizia), per non inquinare e risparmiare (ho usato i limoni dell’alberello ed ingredienti che avevo in casa).
L’idea nasce per continuare l’interessante iniziale “svolta ecologica” cominciata con la compostiera che si è rivelata utilissima, non maleodorante, che ci ha evitato di frequentare spesso i fetidi cassonetti che ci circondano.

Ricetta del sapone per piatti trovata qui

Ingredienti:
tre limoni, 200 gr di sale, 400ml di acqua, 200 ml di aceto bianco.
Procedimento: spremere i limoni. Dalle bucce dei limoni togliere la parte filamentosa interna e il picciolo e tagliuzzare la parte restante da utilizzare. Frullare il succo dei limoni con il sale e le bucce. Aggiungere acqua e aceto, mettere il tutto in pentola e cucinare per 15 minuti, frullare il tutto nuovamente per rendere più fluido e cremoso,
raffreddare e sperare che funzioni, io credo proprio di si!

E questa volta non dico buon appetito, ma buon lavaggio di piatti, perchè vuoi o non vuoi, dopo aver cucinato e mangiato, tocca sempre questa incombenza!

martedì 26 ottobre 2010

Isola delle femmine, tra leggende e misteri.

Isola delle femmine è il nome di un paese in provincia di Palermo, ma anche il nome dell’isoletta che vi si trova di fronte.



Osservare quell’isola tanto vicina alla costa, galleggiante sul mare, disabitata, quasi arida, scontrosa ma dolce, piccola e grande, rappresenta un panorama riconciliante, stranamente rasserenante. La sua vista fa anche scordare il punto di osservazione più vicino, un po’ squallido, uno slargo in una strada delimitata da un muretto tutto rotto e coperto da scritte, circondato da case rovinate dalla salsedine, da sporcizia... un senso di desolazione, una sorta di nulla che tale sarebbe se non ci fosse quella vista.



Ed io, caso vuole, nei momenti più tristi o in quelli più felici mi ritrovo sempre lì, in quel posto assurdo dove però c’è quell’isola così vicina che sembra quasi di poterla toccare.



Un alone di mistero circonda questa isola deserta, abitata solo da gabbiani, topi e conigli, e la cui unica costruzione è una torre in rovina. E l’arcano è dato dal suo nome “delle femmine” che ha ispirato molte leggende. Tutto ruota attorno a quell’unica costruzione che nell’immaginario rievoca le torri delle fiabe dove venivano rinchiuse le fanciulle che dovevano essere liberate da un prode cavaliere.

Isola delle femmine vista da Barcarello

La prima leggenda ipotizza che in quell’isola esistesse un carcere per donne. Certo panoramico... ma alquanto inquietante, Non sono però mai stati trovati resti di vita carceraria (per fortuna direi!).

Isola delle femmine vistada Capo Gallo

La seconda leggenda narra la storia di una donna che ebbe la sfortuna di essere “notata” da un Conte di Capaci. L’uomo (una sorta di stalker dei tempi antichi) non ricambiato e geloso, la rinchiuse nella torre per averla solo per sé. La fanciulla si gettò sugli scogli per sfuggire a quel triste ed oppressivo destino.

La terza leggenda vede ancora l’isola come luogo di isolamento per donne, in questo caso le sfortunate sarebbero state 13 donne turche, accusate di ipotetiche colpe, furono abbandonate in mare dai loro mariti, su una barca che vagò in balia delle intemperie fino a naufragare nell’isoletta dove vissero per sette anni. Passato quel tempo furono ritrovate dai mariti successivamente pentitisi, che le portarono sulla terra ferma costruendo una cittadina a cui diedero il nome di Capaci (qua la pace) per sancire quella (direi tardiva) riconciliazione. Questa versione è secondo me altamente improbabile, considerando che dopo sette anni quelle donne avrebbero preferito rimanere sull’isola deserta piuttosto che tornare dai loro mariti (meglio sole che “malaccompagnate”) . Preferisco immaginarle mentre costruiscono da sole una bella zattera e si trasferiscono in terra ferma dove costruiscono la cittadina, si organizzano ed eventualmente conoscono dei pescatori del luogo.

porto di Isola delle femmine

Un’altra leggenda ancora più incredibile ed improbabile ritiene l'isola la residenza di bellissime donne che si offrivano in premio al vincitore della battaglia.

Isola delle femmine vista da Capo Gallo

Una testimonianza attribuisce invece il nome ad un generale bizantino governatore della provincia di Palermo chiamato Eufemio, da qui insula fimi (isola di Eufemio).

E dopo tutte le leggende forse una verità, il nome probabilmente nulla ha a che fare con le femmine nè con Eufemio, è più probabile che il termine femmine fosse una derivazione dal dialettale fimmini che derivava dalla parola araba fim che significava bocca o imboccatura e stava ad indicare il canale esistente tra l’isola e la terraferma. I primi resti rinvenuti risalgono ai punici, legati alla pesca del tonno.
La torre del XVI secolo sarebbe una delle tante torri di avvistamento nata per sconfiggere la pirateria e probabilmente divenuta rudere a causa dei bombardamenti degli Alleati durante la seconda guerra mondiale e per il totale abbandono.

Insomma il bell’isolotto è un luogo che andrebbe rivalutato e ristrutturato.

cittadina di Isola delle femmine in festa

E così fuori dalle leggende, dalle reclusioni e dai fantasiosi misteri, è bello guardare quell’isola, avendo magari in precedenza acquistato un panino con le panelle, preparato da un’anziana signora del paese nel suo piccolo negozietto (in via Roma), o una bella fetta di anguria in uno dei
chioschi sul porticciolo!
Perchè si sa, il mare apre l’appetito!

lunedì 18 ottobre 2010

I polipetti murati

C’è una ricetta buonissima e tipicamente palermitana che si prepara tra il mese di Agosto e quello di ottobre, un piatto particolarmente gustoso e profumato: i “purpicieddi murati” (polipetti murati).


Ho già descritto come il polpo per i palermitani sia un cibo mitico, soprattutto se mangiato già pronto in uno dei tanti chioschi della città o dei centri marittimi come Mondello o Sferracavallo, cotto alla perfezione dai purpari e condito con nulla o soltanto con una spruzzatina di limone, ma se i polpi sono piccoletti i palermitani non disdegneranno la particolare zuppa dei “polipetti murati”, dove poter inzuppare un filone intero di pane.

Bisogna però distinguere tra il polpo che viene mangiato semplicemente “vugghiutu” (bollito) ed i polipetti da “murare”, se nel primo caso infatti si usa il maiolino (non so se è un termine dialettale o meno, a voi lettori non siciliani svelare l’arcano), che si riconosce perchè ha in ogni tentacolo due file di ventose (parallele), nel caso dei polipetti murati si utilizzeranno prevalentemente i moscardini che hanno una sola fila di ventose, sono di colore bruno, e vengono anche chiamati “agostiniani”, probabilmente perchè il periodo migliore per pescarli della giusta taglia (piccola) è il mese di Agosto.

Ma cosa vorrà dire il termine “murati”’? C’è qualche significato nascosto e misterioso? Avrà a che fare con cemento e mattoni?
Niente di tutto ciò, si usa dire murati perchè il coperchio della pentola, per tutto il tempo della cottura non dovrà mai essere rimosso, cosa che per me è molto complessa perchè ho una piccola mania, quella di mescolare continuamente, ma necessaria in questo caso.
La pentola da usare deve essere capiente perchè i polipetti rilasciano una quantità impensabile di brodo e preferibilmente di terracotta, basta però ricordare che una volta utilizzata a questo fine, dovrà essere solo adoperata per cucinare piatti a base di pesce, l’odore rimane malgrado ogni tentativo provato per eliminarlo (anzi se qualcuno avesse dei consigli in merito...), però potrebbe rivelarsi una risorsa in momenti di crisi... se per esempio si vorrà fare un risotto ai frutti di mare, ma non si avessero a disposizione i frutti di mare... si potrebbe usare la pentola dei polipetti e l’aroma di pesce sarebbe assicurato, almeno spero!

Tornando al piatto di oggi, devo ammettere di non averlo mai preparato, è un piatto forte di mia madre e sua è la ricetta ed anche le foto, io come spesso capita mi dedico alla degustazione, un compito direi davvero faticoso!
Un’ ultima cosa prima di andare al sodo, visto che questa zuppa produce un sughetto favoloso ed anche abbondante, malgrado l’inzuppamento di infinita quantità di pane, ci sarà anche la possibilità di conservare parte della zuppa per condire una favolosa spaghettata.


Ricetta: “I polipetti murati”

Ingredienti: 1 kg di polipetti, 1 cipolla grossa, olio evo, prezzemolo, 400gr di polpa di pomodori pelati, una noce di burro, 1 bicchiere di vino bianco, sale e pepe.

Preparazione: pulire bene i polipetti togliendo occhi e becco. Affettare la cipolla e farla imbiondire con una noce di burro e dell’olio evo, aggiungere un bicchiere di vino e far evaporare. Versare il pomodoro pelato (a pezzi), prezzemolo, sale e pepe. Non appena bolle versare i polipetti e chiudere il coperchio, tenere la fiamma alta, appena dal rumore si percepisce che ribolle, aprire il coperchio e mescolare, a questo punto chiudere il coperchio e far cuocere a fuoco medio basso per 15 minuti circa, senza mai aprire ne mescolare.
Mangiare accompagnando con tanto pane!
Se dovesse rimanere del condimento, cucinare gli spaghetti, scolarli due minuti prima del tempo di cottura e far finire di cuocere nella zuppa, il risultato è assicurato!

venerdì 15 ottobre 2010

Pasta palina



A Palermo, come spesso capita, ogni piatto ha una particolare storia da raccontare, ed anche “a pasta palina” è completa di una sua narrazione del tutto originale.

Questo gustoso piatto dalle infinite varianti, è una delle più gustose cugine della più nota pasta con le sarde, infatti altro non è che una rivisitazione (in versione ancora più povera) di questa.

Chi fu l’ardito che si prese la briga di apporre delle modifiche al primo piatto più caratteristico di Palermo, inventato a suo tempo dal cuoco di un generale arabo sbarcato nella Conca D’oro?
La legenda dice che fu un frate sconosciuto appartenente all’ordine dei minimi (anche detti paolini o in dialetto “palini”) fondato da San Francesco di Paola.

Questi frati seguivano la regola della povertà ed il divieto assoluto di mangiare la carne e i suoi derivati, così dovettero arrangiarsi un po’, e se a Palermo nel bellissimo Monastero di San Francesco di Paola inventarono “a pasta palina”, un piatto povero dove di carne non c’è nemmeno l’ombra (va bene che i vegani più radicali mi potranno dire che c’è il pesce...), in Germania divennero ancora più noti producendo la birra “paulaner” (ed anche qui niente carne!).
Il monastero di San Francesco di Paola a Palermo è un luogo di culto molto bello,
sorge su quella che fu una piccola chiesa campestre dedicata alla martire palermitana S. Oliva, il cui corpo, secondo legenda, venne seppellito proprio sotto la chiesetta, appena fuori le mura della città. Successivamente la chiesetta di Sant’Oliva fu ceduta ai paolini che la spianarono e vi costruirono un monastero e una splendida Chiesa barocca con al suo interno opere pittoriche e sculture di grande valore.


Una curiosità: all’ordine dei paolini si ispirò forse anche il celebre gruppo (ancora oggi avvolto dal mistero) dei Beati Paoli, che dei frati copiarono l’abbigliamento. Riporta infatti il Pitrè, che i Beati Paoli presero questo nome perchè usavano travestirsi da monaci con un saio nero dotato di cappuccio, per passare inosservati durante il giorno, rifugiandosi nelle chiese della città fingendosi frati, e complottando la notte immersi nel buio.

E così, dai Frati Paolini ai Beti Paoli, arriviamo finalmente alla pasta palina, di cui esistono così tante versioni da non sapere più quale sia quella giusta. C’è chi toglie le sarde, chi il finocchietto selvatico, chi mette lo zafferano, chi la salsa di pomodoro. Il concetto è quello di rendere più povera la pasta con le sarde, ognuno fa poi come vuole.

Io mi limiterò alla versione che facciamo in famiglia (di generazione in generazione)!

Ingredienti (per due persone): 200 g di sarde fresche, 200 g di bucato, mezza cipolla grossa, 3 acciughe sott’olio, una manciata di uva passa e pinoli, una bustina di zafferano, olio, sale e pepe.
Premetto che anche nella mia versione ci sono due “sottoversioni”. Dipende se si hanno a disposizione le sarde. Se la risposta è affermativa, la ricetta è quella che tra poco scriverò, nel caso in cui le sarde saranno “fuiute”(scappate a mare), basterà non aggiungerle e magari abbondare un pochino con le acciughe sott’olio.

Preparazione: pulire bene le sarde e “allinguarle” togliendo lisca, squame, testa e coda e cercando di eliminare la maggior parte delle spine. Mettere a imbiondire la cipolla tritata finemente, unire l’uva passa, i pinoli, le acciughe sott'olio, sale e pepe. Aggiungere un mestolo d’acqua, lo zafferano (sciolto in una tazzina d’acqua tiepida) e cuocere a fuoco basso, aggiungere quindi le sarde, amalgamare il tutto per circa 10 minuti, se necessario, aggiungere poco alla volta dell’acqua fino a che si crei un sughetto ristretto.


A questo punto preparare la pasta (deve essere assolutamente “maccarruncino” bucato), scolarla e condirla.

Chi vuole potrà spolverarla con della “muddica atturrata” (pangrattato abbrustolito in padella).

Buon appetito!

martedì 12 ottobre 2010

Il riassunto

Ci sono periodi in cui il tempo sembra scorrere lento e nello stesso tempo ti accorgi di quanto è passato velocemente.

Dall’ultima volta che ho scritto un post, ad esempio, sono già trascorsi due mesi, passati così, rapidamente, e pensi, “ma come è possibile? sembra che sia da ieri ed invece...”, e nello stesso tempo ti domandi: “ma cosa ho fatto di così impegnativo in tutto questo tempo da non poter scrivere? Boh!”

Due mesi, ne è passata acqua sotto i ponti (per fortuna non il fantomatico ponte sullo stretto), e così sono passati velocemente (e nemmeno tanto) cognati e case di Montecarlo (di cui siamo stati costretti a sapere ogni particolare), crisi governative in Sicilia e presunte tali in Italia (chissà), infantili trasformazioni di SPQR risoltesi a tarallucci e vino, drammatici delitti che fanno audience, dossier ben confezionati, ipotetici attentati, parate di dittatori con hostess convertite (poi dicono che c’è crisi di spiritualità), il papa a Palermo tra giubilo e contestazioni (vietate), tagli alla scuola e simboli inquietanti in una scuola, Miss Italia trans , lapidazioni (rinviate) e pena di morte (attuate), sindaci eroici assassinati, minatori sotto terra, scazzottate in sala parto, Elio al posto di Morgan , la guerra che fa morti (ed anche il lavoro), gli scioperi (quasi vietati) degli operai etc... Sembra passato un secolo, ma sono solo due mesi...

Ed io? Sono sempre nel mio villino a Terrasini, luogo che i terrasinesi doc chiamano campagna anche se campagna non è, tra le varie cose fatte, ho raccolto pomodori, pochi peperoni, melanzane e pinoli, ho pulito le infinite sarde regalatemi dalla signora Rosa, ho pendolato tra Palermo e Terrasini , ho letto un libro pensando agli altri quattrocento circa che giacciono in magazzino tra la polvere, ho vistato meraviglioso paese di Castellamare del golfo con la gioia amplificata dal rivedere due amiche (una grande ed una più piccolina, la figlia) che non vedevo da tempo che si trovavano lì, non ho salutato (e questo mi rattrista) una cara amica che si è trasferita a Londra (tanti amici ormai sono fuggiti dalla Sicilia in cerca di realizzazione), due care amiche hanno dato alla luce due nuove vite, sono stata più o meno volontariamente disoccupata, ma mai mi ha sfiorata il pensiero di lasciare la Sicilia (forse solo un pochino), ho cucinato tanto, ma a parte pasta con sarde, anciova, vope fritte, sgombri arrostiti e cous cous al pesce, nulla di tipico o di particolarmente degno di nota se non nella mia improbabile rubrica intitolata “la vera cucina palermitana, ovvero quella cucinata da una palermitana aliena doc”, dove gli ingredienti principali sono: barattolino di vongole (senza barattolino ovviamente), tonno in scatola del discount, pesto pronto (a base di oli di origine sconosciuta), bastoncini di marca ignota (e di pesce scomparso), surgelati di vario tipo, ma udite udite, non ho mai preparate le mie mitiche spinacine... devo per forza rimediare!

Ma non preoccupatevi, a questa rubrica devo ancora lavorarci, il mio prossimo post sarà invece sulla pasta palina e questa è davvero “from Palermo”!
Ecco un piccolo assaggio.

mercoledì 11 agosto 2010

A Palermo quali nomi si danno ai figli?

A Palermo, ma credo anche in gran parte del sud Italia, ci sono delle particolari usanze legate alla nascita dei figli. Come tutte le tradizioni anche queste sono sempre meno radicate nelle famiglie di oggi, ma fino ad alcuni anni fa si trattava di schemi dai quali era quasi impossibile fuoriuscire o almeno fuoriuscirne integri.

La questione centrale girava tutta intorno al nome da dare ai propri figli. C’erano ed in parte ci sono ancora oggi delle regole tassative da seguire, regole che per chi le applicava si incentravano tutte intorno a un concetto: “u rispiettu” (il rispetto), che è il valore principe o forse un atteggiamento sul quale si fondano le relazioni familiari, che non ha solo a che fare con l’amore, la considerazione, la tolleranza, ma in questo caso, nella sua declinazione sicula doc, anche con la conservazione delle tradizioni, con un certo perbenismo ed anche un pizzico di paura...
“Bisogna purtari rispiettu” . E’ una frase, un dettame da seguire per evitare "sciarre" (liti) e "schifiu" (trambusti).

Nel caso del nome da dare ai figli la regola è quella di dare ai primogeniti i nomi dei nonni paterni (che siano maschi o femmine) e ai secondogeniti quelli dei nonni materni, così alcune famiglie “erano costrette” a procreare anche quattro o cinque figli per accontentare un po’ tutti, certo se ad esempio nascevano tre maschi e una femmina si era fregati, perchè la nonna materna non aveva la nipotina con il proprio nome e bisognava accontentarla), ma in compenso si aveva la possibilità di scegliere un “nome moderno” per il terzo maschietto, così magari c’erano quattro fratellini, Salvatore, Carmelo, Assunta e ... Kevin!

Se non si fosse seguita questa regola i nonni si sarebbero offesi pesantemente, avrebbero tolto il saluto, o mostrato dolore e sofferenza estrema, la colpa imputata ai figli sarebbe stata quella di "mancanza di rispiettu", con relativa onta e vergogna dinanzi a tutto il parentado, imbarazzi generali, pubblica gogna (fatta di sguardi e sorrisini).
I nonni più comprensivi dopo il perdono, avrebbero dovuto inventare scuse e giustificazioni di vario genere, fingendo di non sentirsi feriti per tale insubordinazione da parte dei figli, ma sentendosi dire alle spalle da altri familiari : “mischinu un ci misiru u so nomi au picciriddu, u chiamaru Andrea, ma chi è stu nomi nordico?” (poveretto non hanno dato al piccolo appena nato il suo nome, lo hanno chiamato Andrea, ma che razza di nome è, sarà forse un nome proveniente dal continente?).

Poteva capitare che i nonni portavano dei nomi ritenuti troppo “antichi” o brutti e così avvenivano cruente liti tra mogli e mariti al presentarsi del lieto evento: “io ci tengo ai miei genitori”, “ma quel nome fa schifo”, “se non mettiamo il nome di mio padre, appena nasce il secondo non mettiamo nemmeno il nome del tuo”, “poi non ci guardano più in faccia” etc, insomma dinanzi alle cliniche si sono spesso rappresentati dei veri e propri drammi familiari.

E poi c’erano i casi in cui tutti i cuginetti avevano gli stessi nomi e cognomi, in una riunione familiare si chiamava uno e si giravano in cinque. In casi simili poteva avvenire un fenomeno, se i nonni si ritenevano già ampiamente accontentati e soddisfatti avendo un primo nipote che portava il loro nome, gli altri nipoti successivi (figli di altri figli) potevano avere dei nomi diversi ed era un gran sollievo per tutti.

Un altro modo per non contravvenire alla regola del rispetto, ma poter avere la possibilità di scegliere in parte i nomi per i propri figli, era l’uso del “secondo nome”.
Se i nonni erano supercomprensivi si sarebbero accontentati di sapere che il nipotino portava il loro nome come “secondo nome”, quindi per esempio una neo nata si sarebbe potuta chiamare Sharon, Filippa Rossi e se qualche parente chiedeva spiegazione si poteva usare la scusa del “secondo nome”, nella maggior parte dei casi però i nonni pretendevano il "primo nome" (quello che compare nei documenti), si poteva accettare l’idea che i nipoti fossero però abitualmente chiamati con il secondo nome “liberamente scelto” è un po’ complicato, lo so, ma è reale, così per esempio ci poteva essere un Antonino, Ivan Rossi che tutti chiamavano Ivan ma che se doveva firmare, si firmava Antonino Rossi (come il nonno) e questo era già gradito “l’anagrafe è sempre l’anagrafe”.

In alcuni casi i neo genitori si lasciavano prendere la mano con i secondi nomi ed in un delirio di fantasia aggiungevano nomi su nomi, così una figlia magari si chiamava Crocifissa, Allison, Chantal, Barbara, Lucrezia, Veronica, Ambra Rossi e se per caso l’impiegato dell’anagrafe si scordava a mettere le virgole a voglia a firmare...

Se i nomi imposti sono quelli dei nonni, i nomi di fantasia spesso seguono le mode, le soap opera, gli attori del momento, i personaggi dei reality etc, così ci sono generazioni di Barbara, di Monica, di Fabio, di Kevin, di Sharon, ma non so perchè c’è un nome intramontabile in alcune famiglie palermitane doc che è Jessica, detto Giaaassica e risulta sempre... molto chic.

Tra tutte queste regole ce n’è una originale, che nessuno che conosco ha mai usato, un’idea megagalattica, superpersonalistica, da ego gigantesco. Si potrebbe chiamare il figlio con il proprio nome che so, magari anteponendo un altro nome, magari... non so..., un “Pier”... ops forse uno lo conosco, si si è quel certo Signor... Gioacchino che ha chiamato il proprio figlio PierGioacchino, che ego che ha quello lì !!!

E se qualcuno si chiederà come hanno fatto i miei genitori a chiamarmi Evelin è una domanda troppo complessa, posso però rivelare che la mia nonna materna dalla quale avrei dovuto prendere il nome (sono secondogenita) si chiamava Teresa, come sua madre, sua nonna paterna (dalla quale prese il nome), casualmente anche sua suocera, le sue cugine e le sue nipoti ed anche una figlia (che doveva prendere il nome della nonna paterna, ovvero la suocera), in realtà anche la seconda figlia (che sarebbe poi mia madre) avrebbe dovuto chiamarsi Teresa come la nonna materna, ma dove si sono viste mai due sorelle con lo stesso nome (uguale poi a quello di mamma e nonne)? Quindi sia mia madre che io siamo due Teresa mancate, ma dopo tutto questo scioglilingua non credete che sia stato un bene interrompere tutta questa omonimia?

E per chi ha avuto tutta questa pazienza ecco una bella foto di Terrasini

giovedì 5 agosto 2010

"Pipi ammuttunati" (peperoni ripieni).



Un avviso prima del post: andate su Blog di Cucina, sulla rubrica "La Sicilia in tavola" c'è una nuova ricetta realizzata da Ginestra, molto adatta per questi giorni di caldo estivo, "La granita di pistacchi".


C’è un ortaggio al quale non saprei mai rinunciare, potrei consumarlo in pochi secondi, crudo, cotto in ogni modo, cucinato secondo ogni versione o ricetta tipica, semplice o elaborato, ad ogni ora del giorno, sfidando qualunque controindicazione ed effetto collaterale.

Sarà il suo nome che mi risulta così simpatico e mi fa sorridere al pronunciarlo, o forse il colore cangiante, acceso, estivo o quel gusto particolare, a volte più dolce a volte più amarostico o leggermente piccantino, premonitore già al primo assaggio di futura indigestione...
il peperone, così bello, così plasmabile!


Come poter creare un orticello e non coltivare le piantine di peperoni? Oltre tutto soffermandosi ad ammirarle con uno sguardo un po’ infantile, con lo stato d’animo predisposto alla meraviglia verso le cose più scontate o semplici, si rimarrà stupiti per le sorprese che possono regalare...
Osservando infatti il fusto così sottile delle piantine dei peperoni appena sviluppatesi, mi domandavo come fosse possibile che potessero sorreggere il peso e la grandezza di un “frutto” grosso come il peperone. Ed invece su quei ramoscelli magri ma forti, sono cresciuti tre peperoni fieri e impavidi, galleggianti in aria come fossero palloncini gonfiabili, in sfida alla forza di gravità. La natura è fatta anche di magia!


Certo le mie piantine non hanno dato vita a peperoni giganti, ma mediamente dignitosi, ne sono nati (al momento solo tre), ma che stupore e che soddisfazioni mi hanno donato!


Quante ricette si possono creare con i peperoni, c’è proprio l’imbarazzo della scelta, dalla peperonata (fritta), all’insalata con i peperoni arrostiti, con la pasta o il riso, sarà per questo che a palermo i “putiari” (fruttivendoli) “abbanniano” (declamano ad alta voce) : “i pipi sunnu megghiu ra carni (i peperoni sono migliori della carne)”. Sono duttili e gustosi!
Ed allora come cucinare i miei primi due peperoni appena raccolti?
C’è una ricetta che per me rimane sempre un simbolo della cucina palermitana doc, che i miei nonni superata l’ottantina di anni consumano abitualmente come fossero un cibo leggero e digeribile, un vero piatto forte della nostra cucina: i pipi ammuttunati (i peperoni ripieni).


Il ripieno può essere di vario tipo, ma il classico ripieno alla palermitana prevede sempre, insieme alla carne macinata, l’utilizzo di uva passa (per conferire il solito contrasto tra dolce e salato), i pinoli (con la loro funzione antibatterica) e “a muddica” (pangrattato), per sopperire alla “scarsezza” di carne. La cottura secondo la versione più tradizionale avveniva tramite l’uso della frittura, i peperoni ripieni si ponevano in una casseruola con olio d’oliva e si “ignranciavano” (soffriggevano lentamente).
Per fortuna che però c’è il forno, all’uso del quale ha abdicato persino mia nonna...
Vero è che i palermitani hanno lo stomaco resistente, ma già partiamo dai peperoni che tra le loro qualità non hanno certo quella di essere facilmente digeribili, poi ci mettiamo dentro tutta questa roba... li dobbiamo anche friggere??? Sarebbe troppo anche per noi, vabè magari una volta ogni tanto....

Ricetta

Ingredienti:
due peperoni, 250gr di carne macinata, mezza cipolla, una manciata di uva passa e pinoli, tre pomodori, 2 cucchiai di formaggio grattuggiato, 4 cucchiai circa di pangrattato, prezzemolo tritato, sale e pepe, olio evo. La quantità di ripieno è sufficiente per 4 peperoni di piccole dimensioni.

Lavorazione:
tritare la cipolla e soffriggerla in olio evo, appena è imbiondita aggiungere la carne macinata, quando è rosolata versare del vino ed evaporare. A questo punto aggiungere la polpa dei pomodori (o anche un po’ di pelato), uvetta e pinoli. Far stringere e spegnere la fiamma. Quando il composto sarà raffreddato aggiungere il prezzemolo, il formaggio ed il pangrattato, deve risultare solido ma morbido, aggiustare di sale.
A questo punto lavare e asciugare i peperoni, togliere la sommità come fosse un coperchio, eliminare i semi e i filamenti interni. Riempire i peperoni con il composto, lasciando un po’ di spazio e “chiudere il coperchio”.


Preparare una teglia con carta forno, adagiare i peperoni e versare poco olio evo.


Infornare quando il forno è già caldo per una mezz’oretta circa, girandoli di tanto in tanto.

Sarà preferibile spellarli prima di mangiarli per evitare che siano ancora più pesanti e che la pellicina possa dare fastidio. Preparate preventivamente del bicarbonato e poi avventatevi sui peperoni!

martedì 20 luglio 2010

Caldo e simil pesto alla pantesca.

E’ difficile scrivere qualcosa di sensato con questo caldo asfissiante.
Priva di condizionatore, invenzione miracolosa, emanatrice di frescura artificiale, che ha forse contribuito a cambiare la percezione del caldo, ma che in momenti di crisi da arsura aiuta a resistere, non trovo facile stare davanti al computer.

Ricordo quando ero piccola ed ancora questi “strumenti del finto fresco” non erano diffusi nelle case. In quel caso le soluzioni erano le seguenti: andare al mare, ma bisognava stare sempre in ammollo, perchè dopo pochi minuti in spiaggia le insolazioni erano assicurate. Altra soluzione, bagnare dei panni e metterli sulla fronte, nel mentre tenere i piedi in acqua fredda (ricordo davvero delle giornate così...), infine andare all’UPIM o alla STANDA. Ai tempi non c’erano i centri commerciali, i tanto amati "giganti omologatori" dove si va per risparmiare ed alla fine ci si ritrova con i carrelli pieni di nulla. Quando ero piccola al massimo c’erano i “grandi magazzini”, ed il motivo principale che spingeva (almeno noi) ad andarci era il fresco. Mia madre diceva : “Andiamo a prenderci un po’ di “aria confezionata”!!”. Poi quando uscivi la sensazione di caldo umido era terribile, ma per un po’ si respirava.

Andando avanti negli anni un po’ in tutte le case hanno cominciato a troneggiare i condizionatori, rumorosi come aerei in fase di decollo, grondanti di acqua distillata (ne ho usati litri e litri, raccolti pazientemente in bidoncini, per stirare lenzuola e asciugamani del mio b&b), ormai indispensabili, c’è chi li usa con moderazione e solo nei giorni più terribili, tenendo la temperatura non troppo bassa, per scongiurare raffreddori e reumatismi, c’è chi li tiene accesi 24 ore su 24, perchè questi strumenti creano dipendenza, spingono a rimanere rintanati in casa e ad evitare ogni luogo esterno. Sarà per questo che porto avanti una sorta di resistenza anticondizionatori, insomma a parte le camere del mio ex b&b che logicamente ne erano dotate, in casa mia non ci sono i condizionatori, nemmeno adesso che vivo in una campagna assolata . Mi ritrovo così con le serrande abbassate a cercare la frescura naturale che non c’è, a passare notti semi insonni, pensando che prima o poi anche io cederò al fascino della tecnologia!

Tutto questo preludio per dire semplicemente che il caldo mi ha reso difficile scrivere un post!

Ma adesso andiamo al cibo...

Ho preparato un altro pesto, perchè in estate non c’è niente di meglio che un piatto fresco e profumato.

Volevo fare un pesto alla pantesca (la versione che si prepara nella bella isola di Pantelleria), ma tra tante ricette trovate su internet mi sono confusa ed alla fine ho realizzato questo pesto usando i prodotti del mio orticello
e altri ingredienti tipici siciliani, tra cui i capperi di Pantelleria. Quindi alla fine ecco un simil pesto pantesco fatto da me.


Ingredienti:
4 pomodori, basilico, prezzemolo, uno spicchio d’aglio, pinoli, mandorle, olio evo (mezzo bicchiere), una manciata di capperi sotto sale (precedentemente tenuti in acqua), 2 cucchiai di caciocavallo (formaggio stagionato) grattugiato, sale, peperoncino.

Preparazione:
Spellare i pomodori, togliere i semi e farli scolare, poi tagliuzzarli (io li ho grattugiati), tritare basilico e prezzemolo. Togliere il germoglio interno all’aglio, sciacquare bene i capperi. Come sempre la tradizione richiede di passare tutti gli ingredienti al mortaio,
foto illusoria (subito dopo ho frullato tutto)
la lagnusia (pigrizia) invece vuole che tutto venga frullato (la tecnologia ha i suoi vantaggi!).
Condire con questo ottimo pesto
un buon piatto di spaghetti
e cercare un posto fresco dove assaporare il tutto!

mercoledì 7 luglio 2010

Busiate con il pesto alla trapanese

Ecco una ricetta semplicissima, veloce da preparare e che non delude mai, è un piatto tipico di Trapani e provincia ed a casa mia è arrivato direttamente da San Vito, grazie a mia sorella che ha portato, dalla bellissima cittadina della Sicilia occidentale, tutti gli ingredienti ed ha anche offerto la sua manodopera, io quindi mi sono limitata a mangiare.

La ricetta di cui sto parlando è un primo piatto composto da un tipo di pasta che si può trovare in tutta la zona del trapanese, a cui tempo fa dedicai un post, le busiate, una pasta a forma di ricciolino che si realizza grazie all’utilizzo di un “buso”, condita con il pesto alla trapanese.


Esistono diverse varietà di pesti siciliani, ottimi quello alla pantesca con i deliziosi capperi di Pantelleria, o altri tipi che prevedono anche l’utilizzo della ricotta.

Uno dei più semplici ma proprio per questo tra i più buoni è quello alla trapanese, che ha un gusto fresco e diretto, un sapore intenso che parla di Sicilia e di estate.



Nasce probabilmente dall’incontro tra il famoso pesto alla genovese e la Sicilia, un incontro che ha avuto luogo nel porto di Trapani, dove approdavano le navi genovesi e come spesso accade quando due mondi diversi si incontrano senza paura, ma con la voglia di scoprirsi, conoscersi e fondersi, i risultati sono sorprendenti e positivi.
Così al basilico, aglio e olio (ingredienti del pesto genovese) si aggiunsero pomodori rossi e le mandorle, da passare al mortaio per ottenere una salsa deliziosa, il pesto alla trapanese.


La ricetta :

Ingredienti: 5 pomodori, un mazzo di basilico, 2 spicchi d’aglio (privati del germoglio), olio evo, 50 gr di mandorle spellate, sale e pepe. Busiate.

Preparazione: si dovrebbe usare il mortaio, ma in realtà nella nostra ricetta tutto è stato frullato. I pomodori vanno precedentemente spellati e fatti scolare in un colapasta. Mettere il pesto in una zuppiera, appena la pasta sarà pronta si potrà scolare e versare direttamente nel recipiente con il pesto.

Semplice vero?
Nelle foto si può notare che sono stati aggiunti dei pomodori a tocchetti (avevamo avuto il dubbio che il pesto non fosse sufficiente, devo dire che è stata un’ottima soluzione), vedrete anche che bel servizio di piatti non proprio eleganti e tanto meno ecologici che ho usato, eravamo in tanti e la lagnusia ha prevalso...

p.s. aggiungo due foto che nulla hanno a che fare con questo post, ma che vogliono omaggiare la mia gentile vicina che mi regala sempre pesce fresco, questa volta erano uvari e siccome li ho cucinati fritti con cipollata all'agrodolce, "alla maniera delle vope", ricetta che ho già pubblicato, mi limito solo a dire che erano buonissimi!!! Grazie Signora Rosa!




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