San Giuseppe è considerato il protettore dei poveri e dei bisognosi. Tradizionalmente in Sicilia, per il 19 Marzo, si allestivano nelle case dei banchetti ai quali erano invitati i poveri, che venivano serviti direttamente dai padroni di casa.
Questa tradizione a Palermo si è diluita, ma ancora oggi, per la festa di San Giuseppe, in alcune piazze della città, vengono imbandite delle tavolate per ospitare i senza tetto.
Per un giorno queste persone vengono rifocillate e allietate con spettacoli di musica (a Piazza San Francesco di Paola ogni anno c’è il banchetto e ci sono i cantanti neomelodici dotati di pianola che suonano la loro musica), è un bel momento perchè si vedono sguardi allegri e alle volte anche sorpresi, certo che però in una situazione di grande difficoltà, disoccupazione, mancanza di case e impoverimento, appare (non certo da parte di chi si occupa ogni giorno di questi problemi) come un tentativo un pò limitato di “ingraziarsi” il santo e di lavarsi la coscienza. Poi dal giorno dopo i poveri, ormai destinati ad aumentare, riprendono a dormire sulle panchine al freddo e nell’indifferenza. Chissà che ne pensa il santo protettore, padre adottivo di Gesù!
Un altra forma di carità era la distribuzione di un particolare pane, tagliato a croce in superficie ed aromatizzato da semi di finocchio selvatico. Queste pagnottelle si chiamano i “Cricchi di San Giuseppe”. Ancora oggi sono prodotte da alcuni fornai della città e portate in Chiesa, dove, dopo essere state benedette, vengono offerte a tutti i parrocchiani.
Un’ altra importante tradizione della festa di San Giuseppe è quella delle “vampe”, il cui significato era quello di togliere il freddo ai bisognosi, oltre che di glorificare il santo. La sera della vigilia, tra le vie della città, ancora oggi vengono accatastate casse di legno, tavole e roba vecchia a cui viene dato fuoco, tra le grida di grandi e bambini che urlano in coro “Evviva S. Giuseppi”. Questo rito molto suggestivo e un tantino pericoloso (ogni anno i vigili del fuoco hanno un bel da fare durante questa nottata) ha in effetti origini precristiane, legate al culto del sole e ai festeggiamenti dell’equinozio di primavera e dell’arrivo di una stagione più propizia.
Per la festa di San Giuseppe il piatto principale della giornata è “a pasta chi sardi”, uno dei piatti palermitani più originali, che unisce degli elementi molto diversi tra loro, ma il cui accostamento è delizioso e rappresenta perfettamente l’armonia tra agro e dolce tipico della cucina siciliana di origine araba. C’è il pesce azzurro dei nostri mari, c’è la frutta secca (uva sultanina e i pinoli), c’è il gusto particolare del finocchietto selvatico e l’aroma e il colore giallo intenso di una spezia tanto preziosa che è lo zafferano, tutto unito alla pasta che deve essere esclusivamente il bucatino, che deve saltare sul piatto, che è un pò difficile da arrotolare nella forchetta e che soprattutto deve fare lo “scruscio” (rumore) quando il palermitano d.o.c. lo gusta con passione!
Questa tradizione a Palermo si è diluita, ma ancora oggi, per la festa di San Giuseppe, in alcune piazze della città, vengono imbandite delle tavolate per ospitare i senza tetto.
Per un giorno queste persone vengono rifocillate e allietate con spettacoli di musica (a Piazza San Francesco di Paola ogni anno c’è il banchetto e ci sono i cantanti neomelodici dotati di pianola che suonano la loro musica), è un bel momento perchè si vedono sguardi allegri e alle volte anche sorpresi, certo che però in una situazione di grande difficoltà, disoccupazione, mancanza di case e impoverimento, appare (non certo da parte di chi si occupa ogni giorno di questi problemi) come un tentativo un pò limitato di “ingraziarsi” il santo e di lavarsi la coscienza. Poi dal giorno dopo i poveri, ormai destinati ad aumentare, riprendono a dormire sulle panchine al freddo e nell’indifferenza. Chissà che ne pensa il santo protettore, padre adottivo di Gesù!
Un altra forma di carità era la distribuzione di un particolare pane, tagliato a croce in superficie ed aromatizzato da semi di finocchio selvatico. Queste pagnottelle si chiamano i “Cricchi di San Giuseppe”. Ancora oggi sono prodotte da alcuni fornai della città e portate in Chiesa, dove, dopo essere state benedette, vengono offerte a tutti i parrocchiani.
Un’ altra importante tradizione della festa di San Giuseppe è quella delle “vampe”, il cui significato era quello di togliere il freddo ai bisognosi, oltre che di glorificare il santo. La sera della vigilia, tra le vie della città, ancora oggi vengono accatastate casse di legno, tavole e roba vecchia a cui viene dato fuoco, tra le grida di grandi e bambini che urlano in coro “Evviva S. Giuseppi”. Questo rito molto suggestivo e un tantino pericoloso (ogni anno i vigili del fuoco hanno un bel da fare durante questa nottata) ha in effetti origini precristiane, legate al culto del sole e ai festeggiamenti dell’equinozio di primavera e dell’arrivo di una stagione più propizia.
Per la festa di San Giuseppe il piatto principale della giornata è “a pasta chi sardi”, uno dei piatti palermitani più originali, che unisce degli elementi molto diversi tra loro, ma il cui accostamento è delizioso e rappresenta perfettamente l’armonia tra agro e dolce tipico della cucina siciliana di origine araba. C’è il pesce azzurro dei nostri mari, c’è la frutta secca (uva sultanina e i pinoli), c’è il gusto particolare del finocchietto selvatico e l’aroma e il colore giallo intenso di una spezia tanto preziosa che è lo zafferano, tutto unito alla pasta che deve essere esclusivamente il bucatino, che deve saltare sul piatto, che è un pò difficile da arrotolare nella forchetta e che soprattutto deve fare lo “scruscio” (rumore) quando il palermitano d.o.c. lo gusta con passione!
L’origine di questo piatto è araba, la leggenda racconta che ad inventarlo sia stato il cuoco di un generale arabo che sbarcato in Sicilia si trovò in situazioni precarie. Per sfamare la truppa, il cuoco lungimirante, pensò di sfruttare ciò che la natura gli offriva, e inventò un piatto che nei secoli fu arricchito fino ad arrivare alla ricetta tradizionale. Fra l’altro già sia i Romani che i Greci, arricchivano i loro piatti con il finocchio selvatico. E’ interessante anche l’uso dei pinoli (molto presenti nella cucina palermitana), che avendo delle qualità antisettiche, per quella che era una cucina povera, dove era difficile trovare pesce e carne fresca, aveva lo scopo di evitare delle probabili intossicazioni.
Per questa occasione pubblicherò una poesia di mia madre Emilia Merenda su questo piatto così originale. Questa poesia è già stata pubblicata tempo fa dalla mia cara amica Elena della Montagna incantata, che oltre alla poesia ha pubblicato anche la ricetta della pasta con le sarde.. Invito tutti quelli che volessero cimentarsi nel preparare questo piatto a visitare il suo blog e a seguire le sue indicazioni da palermitana d.o.c.
A PASTA CHI SARDI
Finuccheddu di muntagna crisciutu ‘n’natura
e poi ci coci la pasta ni’ l’acqua di cuttura
e pi’ li balatara cchiù fini
hannu a essiri sulu maccarruncini.
Passulina e pignoli e ‘na cipudda ‘ngranciata
anticchia ‘i zafaranu e ‘na sarda salata,
l’ogghiu sempri ginirusu
arriminari spissu senza essiri lagnusu.
Poi ‘na manata di sardi frischi e argintati
e dintra la conza vannu ‘mmiscati,
senza spini e allinguati
vasinnò si pò moriri affucati.
La pasta avi ‘a ristari ‘ngridda,
ca’ mentri la manci sata comu n’ancidda
ca’ sulu a talialla è un veru priu
e poi a mancialla iu m’arricriu.
Tu, nun po’ capiri si nun l’ha’ tastatu mai,
ma si la manci, ti fa scurdari i guai.
LA PASTA CON LE SARDE
Finocchietto di montagna cresciuto in natura
e poi ci cuoci la pasta nell’acqua di cottura
e per i palati più delicati
devono essere solo maccheroncini.
Uva passa e pinoli e una cipolla rosolata,
un po’ di zafferano e un’acciuga salata,
l’olio sempre generoso
mescolare spesso senza essere inoperoso.
Poi un manciata di sarde fresche e argentate
e dentro il condimento vanno unite,
senza spine e diliscate
altrimenti si può morire affogati.
La pasta deve rimanere al dente,
che mentre la mangi salta come un’anguilla
e solo a guardarla è un vero piacere
e poi a mangiarla è una soddisfazione.
Tu, non puoi capire se non l’hai assaggiata mai,
ma se la mangi, ti fa scordare i guai.