mercoledì 31 dicembre 2008

Felice anno nuovo a tutti!!!!
Evelin e Massimo

sabato 27 dicembre 2008

A tummula e altri giochi

Via Libertà

Durante le feste, la tavola oltre che imbandita per mangiare, viene usata per giocare.

I giochi più antichi e tradizionali con le carte sono: a minicheddu (a chi capita il due di spada durante il giro, vince), a cucciari (vince chi ha più ori), a belladonna, a setti e mezzu (chi fa 7 e mezzo vince, se si supera la cifra si dice “palazzu”), piattinu, mercanti in fiera, cucù, mazzunieddu (si punta su alcuni mazzetti di carte, chi ha puntato sul numero più alto vince).

Un gioco antico “per soli uomini” è “a zicchinetta”, questo è una sorta di gioco d’azzardo, ancora oggi è possibile vedere gruppetti di anziani che si riuniscono in alcune panchine e fra i giochi che fanno, usando esclusivamente le carte siciliane, sicuramente c’è a zicchinetta.

Ma il gioco natalizio che unisce da sempre grandi e bambini è la tombola, "a tummula".
Questo gioco fu introdotto in Italia dai genovesi, intorno alla metà del 1700, e si diffuse a Napoli, ma anche in Sicilia.

Per segnare i numeri estratti sulle cartelle, si usavano generalmente fagioli secchi o noccioline, ma la cosa più divertente era “la smorfia” dei numeri. Ogni numero era preceduto da una frase particolare, i più bravi l’associavano rapidamente.

Tuttora i più anziani ricordano esattamente qual è la smorfia di ogni numero, i più giovani si divertono inventandone e improvvisandone di nuove, magari legate ai partecipanti al gioco, per prenderli un po’ in giro e rendere “frizzante” un gioco che altrimenti sarebbe monotono (vedi i terribili, meccanici, rapidissimi “bingo” che oggi la fanno da padrone).

Facendo una ricerca nella memoria (mia e di mia madre) ecco la smorfia di alcuni numeri.

Ci sono quelli legati alle feste: 25 Natali, 2 i muorti, 26 Santo Stefanu, 13 Santa Lucia, 27 San Paganinu, etc,
poi una serie di smorfie sorprendenti ed esilaranti... 22 fuoddi (pazzo), 23 cu l’avi su tuocca (il ventitrè sta in fatti per le zone posteriori del corpo umano), 11 i corna ru ‘nsalataru (non ho idea di chi sia in realtà u ‘nsalataru, più sicuro il fatto che la moglie lo tradisca) , 8 l’ucchiali ru Papa (occhiali del Papa), 47 e 31 muorto chi parla, 4 puorcu, 33 l’anni ri Cristo, 35 ‘nti cannaruozza (che significa nell’esofago, ossia “potessi affogarti”), 17 disgrazia, 18 sagnu friddu (sangue freddo, coraggio), 16 si dice e non si dice ( sedici in dialetto diventa sìdici, da cui si-dici e non si-dici), 77 le gambe delle signorine, 34 l’autobus (ma forse la dicevano quelli che avevano l’abitudine di prendere questo numero di autobus che ora non esiste più), 55 l’attarieddi (gattini), 69 comu gira gira, 89 surci (topo), 62 oru, 71 dinari, 45 denti chi carunu (denti che cadono), 40 a gallina canta (forse si diceva per tutti i numeri che finivano in “anta”), 81 comu l’uorbi (qui la spiegazione è fantastica nel suo essere particolarmente ermetica. Ottantuno diventa in dialetto attantuni, quindi “a tentoni” che è il modo in cui procedono i ciechi, “l’uorbi”).

Durante il gioco comunque si continua a mangiare u ‘scaccio, noccioline, fichi secchi, petra fennula, sfinci etc...
Ora gli amatori potranno farsi una bella tummula a Capodanno e per l’Epifania "A festa ri tri Re".

lunedì 22 dicembre 2008

Questo "giochino" davvero simpatico ...si chiama "la letterina a Babbo Natale "e si tratta di fare un post con una letterina a Babbo Natale, le regole sono davvero poche:
1) ci deve essere tutto, dai regali spirituali (sarò più buono e andrò sempre a letto presto...) ai regali materiali.
2) un regalo per il mondo
3) scegliere 5 amici a cui girare il gira-gioco
4) mettere una figura che vi piace di Babbo Natale

e scrivere che l'ha lanciato Anna Paola

Per questo giochino devo ringraziare Annamaria che mi ha fatto questo bel dono e che anche se la conosco solo tramite blog, sento già di volerle bene, perchè è davvero una persona speciale, e questo si capisce anche a distanza!

La mia letterina:

Caro Babbo Natale
è la prima letterina che ti scrivo in trentadue anni di vita, e visto che ormai sono un po’ adulta non posso più chiederti la “Casa di Barbie” che ho sempre desiderato, ma se sono ancora in tempo, ti prometto che ci giocherò lo stesso.
Per il resto vediamo cosa puoi fare...
Vorrei che il 2009 non fosse più un anno all’insegna dell’ansia, mi basta un po’ di serenità per me e le persone che amo. Come regali materiali, oltre alla casa di Barbie, non sarebbe male nemmeno una casa (visto che fra un poco dovrò lasciare quella in cui abito) per me e Massimo e per i nostri ospiti, magari sempre in affitto (ma non troppo caro per favore!). Un’altra cosa, vorrei che la mia nipotina Alice avesse una vita sempre felice.
I regali che vorrei chiederti per il mondo sono troppi e un po’ difficili: la pace, la felicità per tutti i bambini del mondo, la giustizia sociale, che non ci sia mai più razzismo e discriminazioni di alcun genere, che gli esseri umani non siano più così pazzi da distruggere il mondo inquinandolo, che le malattie gravi vengano sconfitte, che non ci siano più violenze sulle donne etc, scegli tu, ma almeno uno realizzalo se puoi...
I miei buoni propositi: andare a letto presto la vedo troppo difficile, cercherò di provare ad essere sempre più buona, gentile, generosa, e ad avere più pazienza.

Ora aspetto la letterina di :
Elena

Cristina

Cinzia
Laura
Andrea

sabato 20 dicembre 2008

Il "Brociolone" o "Farsumagru"

Il brociolone, anche detto falsomagro è un piatto a base di carne che fa parte della cucina tradizionale palermitana, diffusosi successivamente in tutta la Sicilia (con divese varianti).

Si prepara per le feste più importanti, quindi generalmente è presente nelle nostre tavole per il pranzo di Natale o per Capodanno.
E’ un piatto che si afferma durante il dominio aragonese, ma che era già presente durante il precedente dominio angioino.
Il suo nome, in dialetto siciliano “farsumagro”, che italianizzato è diventato falsomagro, deriva dal francese “farci de maigre”, carne magra farcita. Questo nome è stato erroneamente interpretato come “falso magro”, una carne magra che essendo condita riccamente è magra soltanto in apparenza.
La storia di questo piatto è interessante, perchè in qualche modo rappresenta un’anomalia della nostra cucina, ma che mostra ancora una volta, la fantasia e la grande arte gastronomica dei bravissimi “monsù”, nell’arricchire quelli che in origine erano piatti poveri.
La carne infatti non è specialità tipica della cucina palermitana, perchè non vi erano (e non vi sono) ricchi pascoli, e i buoi venivano usati soprattutto per arare la terra.
Venivano quindi macellati dei buoi vecchi, la cui carne era fibrosa e dura. Fu così che i Monsù arricchirono queste carni con farciture gustose, che potessero renderle saporite e degne della tavola.

Tuttora la ricetta tradizionale prevede l’uso del vitellone e non del vitello come alcune ricette un po' “ritoccate” consigliano.

Come ho già detto ci sono tante varianti, quella che pubblico è una delle ricette più tradizionali. Per le foto devo aspettare a dopo Natale, perchè finora l'ho soltanto mangiato, ma mai fotografato!

Ingredienti:

Un'unica fetta di fesa di vitellone di circa 800 gr, piatta e battuta, in modo che abbia uno spessore di crica 1 cm, 200 gr di mortadella, 200 gr salame, 100 gr di caciocavallo fresco tagliato a pezzetti (o provola), 400 gr (crca) di pangrattato, 50 gr (circa) di caciocavallo grattugiato, cipolla, uvetta, pinoli, prezzemolo, 4 uova sode, 1 bottiglia di salsa di pomodoro, 1 bicchiere di vino rosso, piselli fini surgelati, olio evo, sale e pepe.

Preparazione:

Far imbiondire mezza cipolla tritata in olio evo. A fuoco spento aggiungere il pangrattato, il formaggio grattugiato, l’uvetta precedentemente ammollata in acqua, i pinoli, il prezzemolo, sale, pepe e olio evo in abbondanza, il salame e il caciocavallo fresco a cubetti. Fare un impasto morbido.

Battere la carne, salarla e peparla, se si vuole si possono mettere dei fiocchetti di burro. Stendere le fette di mortadella (si potrebbe in alternativa usare la mortadella a pezzetti unita alla farcitura). distribuire il composto precedentemente preparato, creare una sorta di solco centrale e adagiare le uova sode. Arrotolare e legare bene con spago da cucina.

Cuocere in un tegame scoperto, a fuoco basso, con olio evo e con una cipolla precedentemente affettata, rigirando ogni tanto. Questo procedimento a Palermo si dice ‘ngranciare.
Quando la cipolla è morbida, versare il vino e far evaporare. Aggiungere quindi la salsa di pomodoro e far cuocere a fuoco basso, facendo attenzione se il sugo si stringe troppo. A cottura ultimata togliere il brociolone dal sugo, farlo raffreddare, slegarlo, tagliarlo a fette non troppo sottili e metterlo su un piatto da portata.
Far cuocere nel sugo i piselli per circa 10 minuti. Versare il sugo sopra le fette di brociolone.

Mangiarlo e prepararsi a una lenta digestione!

foto di Jan-Luc Moreau

mercoledì 17 dicembre 2008

Il Buccellato, dolce di Natale

A Palermo il dolce di Natale per eccellenza è il buccellato o cucciddatu, e la versione formato mignon, i buccellatini. E’ un dolce all’apparenza semplice, a base di pasta frolla, ma racchiude in sè dei sapori che si intrecciano armoniosamente tra loro e che ci parlano di Sicilia. Fichi secchi , uva passa, pinoli, mandorle, noci, arancia etc.


La forma generalmente è a ciambella, con la parte superiore tagliata a formare dei ricami, può essere decorato da miele e pistacchi oppure da zucchero velato. I buccellatini vengono anche ricoperti da glassa bianca di zucchero e diavoletti di zucchero colorato.

Questo dolce origina dal mondo contadino, addirittura potrebbe risalire dal “panificatus” dei romani, il suo nome infatti deriva dal latino “buccellatum”, pane diviso a pezzi, bocconi.


Per quanto riguarda il ripieno, si può pensare ad un’origine araba visto che si tratta di un’associazione di sapori tipici di questa cucina.


Esistono diverse ricette di buccellato, dove possono esserci piccole variazioni, sia nella pasta frolla (si può usare burro o strutto, c’è chi mette ammoniaca, ma io lo sconsiglio), sia nel ripieno, c’è chi mischia tutto con marmellata, chi con miele, chi con un tuorlo d’uovo, c’è chi aggiunge cioccolato, cannella o chiodi di garofano. Anche la decorazione può variare.
Quella che pubblico è una ricetta che a me piace.


Ingredienti:


500 gr. di farina 00, 300 gr. di burro, 200 gr. di zucchero, 3 uova, 1 dl di latte, mezzo bicchiere di vino Marsala, 300 gr. di fichi secchi, 200 gr. di uva passa, 100 gr. di uvetta sultanina, 150 gr. di noci sgusciate, 30 gr. di pinoli, 30 gr. di scorza di arancia candita, 100 gr. di zuccata , 50gr cioccolato fondente a scaglie, 150gr di mandorle tostate, marmellata d’arancia, un pizzico di cannella.

Procedimento: impastare la farina, lo zucchero, il burro, le uova e il latte. Appena il tutto è bene amalgamato, lasciare riposare per circa un'ora nel frigorifero.
Per il ripieno triturare i fichi secchi, l'uva sultanina, l'uva passa, le noci, i pinoli, la scorza d'arancia, la zuccata, le mandorle, e la cannella, mescolare e mettere sul fuoco insieme al marsala per circa dieci minuti. Fuori dal fuoco aggiungere tre cucchiai di marmellata di arance e fare raffreddare.
Stendere la pasta (1 cm di spessore) in un rettangolo, sistemare il ripieno, distribuire le scaglie di cioccolato e avvolgere a forma di ciambella. Incidere la superficie con tagli che mostrino il ripieno.

Il buccellato deve esser adagiato su di una teglia unta ed infarinata, in forno preriscaldato a 180° per circa mezz’ora .


Si può successivamente guarnire in diversi modi:

Scaldare 4-5 cucchiaiate di miele per versarle nel buccellato in modo da renderlo lucido e guarnirlo con della frutta candita mista.


Spennellare il buccellato con un cucchiaio di marmellata d’arance sciolta nell’acqua, quindi spolverare con i pistacchi tritati e rimettere in forno per altri cinque minuti.


Spolverare il buccellato con zucchero a velo.


A voi la scelta
Far raffreddare e buon appetito!

Un Natale più umano

Fra poco è Natale. A me sinceramente i festeggiamenti “comandati” non sono mai piaciuti, non mi piacciono l’ostentazione della ricchezza e il consumismo sfrenato, a cui siamo quasi obbligati in questi giorni. Non mi piace molto che nella mia città, come anche in altre, per addobbare le vie, si debbano spendere 280 mila euro più iva, per le luminarie e un albero (tra l’altro nemmeno troppo bello) che arriva dal Trentino Alto Adige, quando ci sono situazioni di degrado e povertà molto forti. Lo fanno per i turisti (che tra l’altro a me interessano...), ma quando i turisti trovano le vie ricolme di immondizia non è forse peggio? E comunque a Palermo ci sono tante altre bellezze che attraggono i turisti per fortuna. Poi non amo molto l’ipocrisia di tanti che fingono di volersi bene in quel giorno e poi durante tutto l’anno...

Io spero in un tempo in cui tutti gli esseri umani, tutti i giorni, possano pensare alla solidarietà, all’amore, ai bambini, alla pace, all’amore per le diversità, al rispetto per le diverse religioni e idealità, alla non violenza, alla gentilezza. Quindi ben venga se il Natale può essere un simbolo, un primo momento per pensare un po’ a questo, d’altra parte si festeggia la nascita di un uomo che per i suoi tempi era diverso dal comune, che portava con sè gli emarginati dalla società, che lottava contro i tradizionalisti del tempo, contro i ricchi, a fianco dei più bisognosi. Per questo il Natale può essere un giorno che può unire tutti, i cattolici, ma anche chi ( di altre religioni o non credente) ha come priorità l’amore per gli altri piuttosto che il cinismo, il razzismo e l’arrivismo che dimorano in questi tempi.

Con questa occasione, mi sembra un bel gesto quello promosso da Andrea Matranga per rendere il Natale un po’ più significativo, con la speranza che questo accenda l’attenzione su situazioni come le case famiglie o altre realtà che operano nel sociale, che vedono gente impegnata ogni giorno, per dare una possibilità a chi è meno fortunato, e spesso non riescono ad avere contributi pubblici e devono andare avanti con le proprie forze.

Grazie Andrea


Ecco il suo post:
"Cari amici, scusate se vi posso sembrare invadente e in qualche misura arrogante. Premesso che non voglio offendere nessuno, come ogni anno, invito tutti gli amici a ricordarsi che Il Natale è soprattutto la festa dell' Amore, della fratellanza ma principalmente è la festa dei Bambini. Forse non si festeggia la nascita di uno di essi? E' l'unico momento (purtroppo) dove tutte le diversità debbono scomparire e deve prendere il sopravvento lo spirito di solidarietà. Come ho già fatto l'anno scorso Vi invito a destinare una piccola percentuale delle somme che spenderete per i regali di Natale( so che quest'anno le somme sono già piccole)a comprare un sacchetto di generi alimentari di prima necessità. Vi riporto alcuni esempi: una busta di latte 80cent.1 pacco di pasta 85 cent. 1 di zucchero 90 cent. 1 pacco di biscotti 1 euro pomodori pelati 60cent ecco basta entrare anche in un discaunt e spendere anche 5 euro e destinarli al più vicino orfanotrofio oppure a una casa famiglia.Farete felici dei bambini che purtroppo non sono stati baciati dalla fortuna come i Nostri e che hanno perso tutta la loro prerogativa di essere bimbi:l'innocenza, la spensieratezza, la genuinità, molto di loro hanno vissuto e continueranno a vivere (nel ricordo) esperienze che hanno violato il loro status di BAMBINO. Adesso basta, non voglio lagnarvi più di tanto, vi chiedo scusa di questa mia invasione, so che magari vi ho reso tristi per qualche minuto della vostra vita, ma lo faccio per poter, dalla vostra tristezza momentanea ,regalare qualche minuto di felicità negata ai BAMBINI."

sabato 13 dicembre 2008

Menù di Santa Lucia

Abbiamo detto i motivi per cui a Palermo per il giorno di santa Lucia non si mangia pane e pasta. Tutti i panifici della città rimangono chiusi (tanto nessuno si permetterebbe di trasgredire e rischiare così la perdita degli occhi...). A dominare sono invece le tante friggitorie dove si possono mangiare panelle e crocchè, e le pasticcerie dove acquistare la cuccìa.

Nel menù concesso ai palermitani, gli ingredienti più importanti sono il riso e le patate, che vengono elaborati in vari modi.

Le pietanze tanto amate e scandite durante la giornata sono:

per colazione:
patate bollite, allessi (castagne bollite), minestre di grano lessato, oppure “cartiddati” di panelle (di farina di ceci) e crocchè (fatte con purea di patate e fritte). C’è chi mangia la cuccia con crema di latte o ricotta (che anticamente era preparate dalle suore dei tanti monasteri di Palermo, la cui tradizione è stata ripresa dalle pasticcerie locali).

Per il pranzo e la cena:
minestre con riso e sparacelli (broccoletti) o broccoli (cavolfiore), “grattò di patate”, panelle e crocchè, “riso alla palermitana” (timballo di riso con ragù e melenzane fritte, cucinato al forno), ma soprattutto la fanno da padrone, le arancine (palline di riso grandi quanto un’arancia, con il ripieno e fritte) che possono essere “ca carni”(ragù e piselli) e “cu burrù” (prosciutto, besciamelle e scamorza e noce moscata), che adesso però esistono in commercio anche condite con spinaci, pollo etc.

Per l’occasione se ne fa una vera scorpacciata. A fine mangiata, si ha ancora la forza e il coraggio per mangiare la cuccìa con ricotta o crema. I più arditi dopo la mezza notte si fanno una bella spaghettata!

Ma si sa a Palermo siamo "manciatari"!

Evviva Santa Lucia!

Arancine in preparazione....


venerdì 12 dicembre 2008

Santa Lucia

Il 13 Dicembre si festeggia Santa Lucia. La Chiesa scelse questo giorno, per celebrare la santa, il cui nome fa riferimento alla luce, per la necessità di trasformare in riti cristiani quelli che erano festeggiamenti pagani che celebravano l’inizio della rinascita del sole.

Nel calendario Gregoriano infatti il 13 dicembre coincideva con il solstizio d’inverno (il giorno più corto, nell’emisfero nord della terra), periodo in cui vi erano festeggiamenti a cui difficilmente il popolo “neocristiano” avrebbe rinunciato. La stessa cosa avvenne per il 25 dicembre (data scelta invece per celebrare il Natale) che coincideva con il solstizio d’inverno secondo il precedente calendario (Giuliano).

Il culto della Santa è anche legato al culto della dea greca Demetra (Cerere per i romani), i cui attributi principali erano il mazzo di spighe e la fiaccola, e alla quale si offriva il grano. Da qui probabilmente nasce l’antica legenda raccontata sia a Palermo che a Siracusa, secondo la quale la “vergine siracusana”, invocata durante un periodo di carestia, li salva mandando un bastimento carico di grano, che fu bollito e condito con olio per essere consumato il più rapidamente possibile, da cui l’astenzione dal mangiare farinacei durante il 13 dicembre e l’origine della tradizionale cuccìa (dolce a base di grano).

Alcuni cenni della tragica vita di Santa Lucia.

Lucia era una giovane siracusana di ricca famiglia, promessa in sposa ad un pagano. In seguito ad una grave emorragia che aveva colpito la madre Eutichia, Lucia e la madre, andarono in pellegrinaggio a Catania, per chiedere la grazia a Sant’Agata (probabilmente il 5 febbraio del 301). La ragazza fece il voto di castità e chiese alla Santa di poter dedicare la sua vita a Dio, cadde in un sonno estatico in cui le apparve la Santa, che la rassicurò circa la guarigione della madre e le chiese di dedicare la sua vita ai poveri.
Al loro ritorno la madre guarì e Lucia distribuì la sua ricca dote e tutti i suoi beni ai poveri, rinunciando al matrimonio.

Secondo leggende popolari, il fidanzato non contento, le disse che l'avrebbe sposata per avere po' della sua bellezza: così lei si strappò gli occhi e glieli diede, dicendogli che così avrebbe comunque avuto parte della sua bellezza.

Il fidanzato capì che il motivo del rifiuto era la fede cristiana di Lucia, la denunciò quindi all'arconte Pascasio, per aver disobbedito alle norme di Diocleziano che vietavano di prestare culto a Cristo.

Lucia fu arrestata e processata, e forte della sua fede dichiarò la sua cristianità, nonostante le minacce. Fu quindi portata in un lupanare per essere oltraggiata, ma nulla riuscì a spostarla dal luogo dove si trovava, molti soldati le furono addosso ma i loro sforzi erano inutili. La legarono e provarono a trascinarla con un paio di buoi, ma Lucia restava immobile come una roccia.Allora fu cosparsa di resina e pece, e data a fuoco, ma le fiamme non la bruciavano. Fu condannata alla decapitazione. Prima dell'esecuzione capitale (avvenuta il 13 dicembre 304) Lucia preannunciò sia la morte di Diocleziano, avvenuta di lì a breve, sia la fine delle persecuzioni, terminate nel 313 d.C. con l'editto di Costantino che sanciva la tolleranza religiosa e la libertà di culto.

La leggenda di Lucia nasce dal nome connesso con la luce. Secondo altre leggende gli occhi le sarebbero stati strappati dai suoi torturatori, così lei stessa se li sarebbe rimessi tornando a vedere . L’iconografia la raffigura infatti con un piatto in mano, in cui sono posti gli occhi, con un mazzo di spighe e con un pugnale conficcato in gola.

giovedì 11 dicembre 2008

La Cuccìa di Santa Lucia

You can find this recipe in English on I Love Palermo

Il nome “cuccìa” origina dal termine dialettale “cocciu” cioè chicco.
E’ una pietanza che trae origine dalla dominazione musulmana (in alcune città del Nord Africa esistono piatti molto simili con grano bollito, crema di latte e cannella).

Una leggenda palermitana fa risalire l’origine della cuccìa da un episodio avvenuto durante la dominazione spagnola in Sicilia. A Palermo ci sarebbe stato un lungo periodo di carestia, i palermitani chiesero grazia alla Santa siracusana, che fece arrivare al porto (il 13 dicembre) un bastimento carico di grano, che la gente, dalla tanta fame, non fece i tempo a macinare e a panificare , ma lo mangiò semplicemente bollito e condito con olio. Da qui la cuccìa e il “fioretto” di non mangiare pane e pasta per la commemorazione di questo evento e per rispettare la santa. I trasgressori, si diceva, sarebbero diventati ciechi come Santa Lucia.

Di fatto questa leggenda non corrisponde a verità, e in ogni caso è stata “presa in prestito” da una leggenda siracusana. Infatti anche i concittadini della santa raccontano lo stesso episodio, ricordando che nel 1646 ci fu una carestia a Siracusa (ed in effetti se proprio dobbiamo credere a queste storie, sarebbe più “logico” pensare che la santa abbia aiutato i suoi concittadini).

E’ probabile che i palermitani si siano appropriati di questo episodio, perchè da buoni amanti del cibo (ma anche un po’ superstiziosi), hanno avuto un occasione per creare un piatto molto goloso (che poco ha a che fare con la cuccìa molto semplice con olio), per fare un fioretto da “veri devoti”, non mangiando pane e pasta, ma consolandosi con una serie infinita di leccornie (arancine, gattò di patate, panelle e crocchè, cuccìa con ricotta e crema etc), preservandosi così la vista, sentendosi l’anima in pace, ma non rinunciando a deliziare lo stomaco.

La preparazione della cuccìa è quasi un rito nelle famiglie siciliane e palermitane in particolare, la tradizione vuole che questo dolce sia distribuito a familiari, amici e vicini di casa.

Ricetta tradizionale con crema di ricotta:

Ingredienti: 500gr di grano, 200gr di zucchero a velo, 1,5kg di ricotta fresca, 50gr di frutta candita (preferibilmente cedro, scorzetta d’arancia o zuccata) tagliata a pezzetti, 200gr di cioccolato fondente.

Lavorazione:
Preparare il grano: metterlo in una pentola con acqua fredda per tre giorni, cambiando l’acqua continuamente. La sera prima della festa, mettere il grano a cuocere in un tegame, coperto d’acqua con un pizzico di sale, scolarlo bene.
Preparare la crema: setacciare (si può anche passarla con il frullatore) la ricotta, aggiungere lo zucchero a velo e mescolare bene. spezzettare il cioccolato a scagliette, aggiungere alla crema la frutta candita e le scaglie di cioccolato e mescolare delicatamente (c’è anche chi aggiunge la cannella).
Infine aggiungere il grano alla crema. Si può anche riporre in frigorifero.

Ricetta con crema di latte:

Ingredienti: 500gr di grano, 120gr di amido, 1 litro e mezzo di latte, 200gr di zucchero, 200gr di cioccolato fondente, 50gr di frutta candita a pezzetti.

Lavorazione:
Preparare il grano come sopra.
Per la crema, sciogliere l’amido nel latte freddo, mescolando con una frusta, far cuocere a fuoco basso mescolando continuamente. Spegnere il fuoco non appena sarà addensato. Aggiungere il grano. Far raffreddare e unire il cioccolato ridotto a scagliette e la frutta candita a pezzetti.
Questa è una base per altri tipi di creme, al cioccolato, crema gialla ecc., con cui si può condire la cuccìa.

mercoledì 10 dicembre 2008

“Grattò chi patati”

You can find this recipe in English on I Love Palermo

Per cominciare a preparare il menù per la festa di Santa Lucia, ecco la ricetta del gattò di patate, che insieme alle arancine e alla cuccìa, sono i “simboli culinari” di questo giorno, in cui si cercano alimenti da sostituire al pane e alla pasta.

Il “gattò di patate”
si mangia per la festa di Santa Lucia, il 13 Dicembre, ma è un ottimo piatto per tutti i periodi dell’anno, qui a Palermo lo chiamiamo anche “Grattò chi patati”. Il nome deriva dal termine francese “gateau” che vuol dire torta.

Il gattò, tipico piatto della cucina povera, è un tortino di purea di patate con all’interno rimasugli di salumi e formaggi da consumare. Ma la versione che nel tempo è diventata più dominante (anche se meno povera), è quella con all’interno un ragù molto denso (lo stesso che si usa per le arancine). Ognuno può comunque sperimentare diverse varianti lasciando libero spazio alla propria fantasia (ad esempio con prosciutto e scamorza, spinaci e salsiccia, etc).

Ingredienti:
2 Kg di patate vecchie, 2 uova, 50gr di formaggio grattugiato (meglio caciocavallo, ma va bene anche parmigiano), prezzemolo, pangrattato, olio extravergine d’oliva.
Per il ripieno: 500gr di tritato, 1 scatola di pomodori pelati o di concentrato di pomodoro, 200gr di piselli fini surgelati, 1 cipolla, noce moscata, 1 foglia di alloro, mezzo bicchiere di vino, un cucchiaino di zucchero.

Lavorazione:
Lessare le patate con la buccia. Quando sono cotte e ancora calde, pelarle e schiacciarle. Aggiungere due uova, il formaggio e il prezzemolo triturato. Impastare bene il tutto, se risulta troppo morbido, aggiungere pangrattato.
Nel mentre far dorare nell’olio extra vergine d’oliva, una cipolla triturata, aggiungere il tritato, sfumare successivamente con il vino. Aggiungere poi i pelati precedentemente spezzettati o il concentrato (e poca acqua). Grattugiare della noce moscata, aggiungere una foglia di alloro, sale e pepe secondo il gusto e un cucchiaino di zucchero. Far cucinare per circa 30 minuti. Aggiungere quindi i piselli e far cucinare fino a quando questi non saranno morbidi. Il ragù dovrà risultare abbastanza denso.

A questo punto, ungere una teglia con l’olio e spolverarla con il pangrattato. Dividere in due parti l’impasto di patate, Con una parte foderare la teglia, condire con il ragù, con il restante impasto coprire il tutto. Ungere la superficie del gattò con dell’olio e spianarla con le mani, spolverare infine con pangrattato. Inserire in forno caldo a 180 gradi per circa 45 minuti (fino a quando non si sarà formata in superficie una crosticina dorata). Buon appetito

sabato 6 dicembre 2008

"A Maruonna" e... sfinci fatte in casa

L’8 dicembre è la festa dell’immacolata concezione, che qui a Palermo si chiama solamente “A Maruonna”.

Per il giorno della Immacolata concezione, i più fedeli o i curiosi possono assistere ad alcuni riti particolari legati al culto mariano.


Per tutta la serata del 7 dicembre c’è una sorta di pellegrinaggio verso la Chiesa di san Francesco d’Assisi, dove si trova, sull’altare, un quadro dell’immacolata assunta in cielo, e un tempietto in cui è conservato il simulacro d’argento della Vergine Immacolata.

Il giorno successivo, l’8 dicembre, c’è la processione “da' Marunnuzza”. Dalla Chiesa di san Francesco d’Assisi, viene uscito il simulacro della madonna e portato lungo Corso Vittorio Emanuele e Via Roma fino alla colonna votiva in Piazza San Domenico, dove con l’ausilio dei Vigili del fuoco si offrono fiori alla madonna.
Da lì il simulacro viene portato sino alla Cattedrale dove si svolge la cerimonia dell’ offerta degli scudi d’argento (che la Giunta comunale dona per il culto dell’Immacolata).
Dalla Cattedrale si ritorna indietro verso la chiesa di san Francesco d’Assisi.Nella piazza antistante l’ingresso alla basilica, il simulacro si ferma, dopo uno squillo di tromba i “portatori” entrano in Chiesa urlando sulle note della “banda”.

Di certo non tutti partecipano a questa processione, la stragrande maggioranza dei palermitani si gode soprattutto i piaceri della gola e la compagnia di amici e familiari, riunendosi la sera della vigilia per giocare a carte e mangiare sfincione, baccalà e dolci vari (tra cui le “sfinci”). In alcune case si comincia ad allestire l’albero di Natale o il Presepe.

Sfinci fatte in casa (i dosaggi sono orientativi, perchè alla fine si fa “ad occhio”):

ingredienti: 150gr di farina 0, 300gr di patate lesse, 25gr di lievito (per pane), acqua, 1 cucchiaio di zucchero.

Mescolare in una contenitore alto (l’impasto aumenterà di volume) la farina, le patate lesse e precedentemente schiacciate e il cucchiaio di zucchero. Aggiungere acqua a poco alla volta formando un’ impasto denso ma morbido, alla fine aggiungere il lievito, impastare con forza. Coprire il contenitore con una tovaglia e lasciare lievitare per almeno mezz’ora. Far riscaldare in un pentolino abbondante olio extra vergine d’oliva. Versare l’impasto a una cucchiaiata alla volta, fino a formare tante frittelle che si gonfieranno. Quando saranno dorate riporle in un vassoio con carta assorbente, e poi passarle in un contenitore con dello zucchero fino a ricoprirne tutta la superficie.

martedì 2 dicembre 2008

Il Baccalà

foto di Jan-Luc Moreau

Il baccalà è un particolare tipo di merluzzo diverso da quello pescato nel Mar Mediterraneo, che è conosciuto con il nome di Nasello.
Viene pescato nell’Atlantico Settentrionale e raggiunge grosse dimensioni.
Com’è possibile che un pesce del nord sia arrivato in Sicilia e sia diventato un alimento fondamentale (soprattutto nel passato), base per piatti tradizionali (baccalà fritto, chi passuli, a sfinciuni)?

Foto di Jude Witts

E’ probabile che sia arrivato in Sicilia tramite i Normanni, discendenti dei Vichinghi (grandi navigatori della Norvegia) che pescavano nei loro mari questi merluzzi, e che usavano conservare tramite un processo di essiccazione all’aria aperta, riducendoli rigidi come dei bastoni. Così il tipo di conservazione dava al pesce un nuovo nome, che era appunto bastone di pesce, nel termine fiammingo “kabeljaw”, che divenne il nostro baccalà, oppure da un termine di derivazione anglosassone, stock (legno), fish (pesce), o nel norvegese stockfish, pesce da stoccare (conservare), da cui il nostro stoccafisso.

Negli anni a seguire i popoli Baschi del nord della Francia e della Spagna si imbatterono in questi banchi di merluzzi, mentre andavano a caccia di balene. Questi pescatori adottarono un nuovo tipo di conservazione, sia per il trasporto in terre più calde, sia per la loro consuetudine a salare la carne delle balene. Conservarono il merluzzo ( che chiamarono bacalao) sviscerandolo, decapitandolo e mettendolo sotto sale (questo metodo fu poi ripreso e ampliato anche dagli stessi vichinghi).
E’ così che ancora oggi si conserva il baccalà, differentemente da quello che invece chiamiamo stoccafisso che viene essiccato all’aria aperta.

L’uso del baccalà arrivò in Sicilia grazie ai Normanni e successivamente dai commercianti norvegesi, come merce di scambio (in cambio del sale di Trapani) e divenne un protagonista delle nostre tavole poiché era un alimento economico ma nutriente perchè ricco di proteine.
Il baccalà veniva consumato di venerdì, per la quaresima e soprattutto durante il periodo di dicembre per l’immacolata concezione e per il cenone di Capodanno.

Per essere cucinato, il baccalà ha bisogno di un precedente processo di dissalazione (che dura dalle ventiquattro alle quarantotto ore), per rendere la sua carne più morbida (e per eliminare un odore un po’ sgradevole). Questo processo inizia già nelle pescherie. E’ possibile infatti vedere nei nostri mercati (Ballarò o il Capo), dei banconi dove vi sono i filetti di baccalà immersi in bacinelle di acqua fredda o sotto dei rubinetti di acqua corrente.
Dopo averli acquistati, prima di cucinarli, sarà necessario soltanto risciacquarli in acqua fresca.

Ricette:

Baccalà fritto:
è una ricetta semplice, basta infarinare i filetti precedentemente sciacquati e tagliati a pezzi, e friggerli in olio extravergine d’oliva bollente. Porli in carta assorbente e mangiarli.

Bccalà chi passuli:
tritare una cipolla e farla imbiondire in un tegame insieme ad uno spicchio d’aglio, in olio extravergine d’oliva. Aggiungere salsa di pomodoro oppure estratto di pomodoro (allungato con l’acqua necessaria). Regolare di sale. Aggiungere una manciata di uva sultanina precedentemente ammollata in acqua. Quando la salsa sarà pronta, adagiare delicatamente i filetti di baccalà precedentemente sciacquati e lasciar cuocere per un quarto d’ora circa, facendo attenzione che non si attacchino al fondo del tegame. (c’è anche chi aggiunge olive nere snocciolate).

Baccalà a sfinciuni:
preparare la stessa salsa che si usa per lo sfincione. Affettare abbondante cipolla e farla imbiondire in un tegame con olio extravergine d’oliva, aggiungere dei pezzetti di acciuga salata. Aggiungere pomodoro pelato sminuzzato o salsa di pomodoro, sale e pepe. Far cuocere per venti minuti circa.
Preparare una teglia con da carta forno unta di olio extravergine d’oliva . Adagiarvi i filetti di baccalà e ricoprirli con la salsa precedentemente preparata e aggiungere un po’ di origano. Spolverare in tutta la superficie abbondante pangrattato. Infornare finchè in superficie non si formerà una crosticina dorata (circa 15 min.). C’è chi aggiunge olive nere snocciolate, o c’è un’altra versione in cui vengono aggiunti in teglia anche dei tocchi di patate sbollentate. (C’è chi in assenza di baccalà mette in forno soltanto le patate sbollentate con la salsa e pangrattato, ma questo è un altro piatto ancora più povero che si chiama “patate a sfinciuni”, è una buona alternativa per chi non ama particolarmente questo pesce).

Baccalà apparecchiato alla palermitana: (vedi capone apparecchiato).

venerdì 28 novembre 2008

Premio Dardos

Vorrei ringraziare tantissimo la carissima Cristina per avermi dato il Premio Dardos.
E' un premio graditissimo, quando l'ho ricevuto mi sono anche emozionata!
E con gioia lo trasmetto ad alcuni blog che mi piacciono particolarmente:
La montagna incantata della mia amica Elena
MissKappa di Anna
Turismo lento di Carmine Volpe



il premio dardos è un riconoscimento di prestigio nel mondo della letteratura e con il quale vengono riconosciuti i valori di ogni blogger che esprime ogni giorno con il suo impegno nel trasmettere valori culturali, etici,letterari,personali ecc....,che insomma dimostra la sua creatività attraverso il suo vivo pensiero che è, e rimane vivo nei suoi scritti,e nelle sue parole.

lunedì 24 novembre 2008

Dicembre

For the English translation go on I Love Palermo


Chiesa dell'Immacolata Concezione al Capo

Il mese di Dicembre è il più ricco di festeggiamenti, tradizioni e “mangiate”.
Le vetrine dei negozi si cominciano già ad adornare di decorazioni natalizie e le pasticcerie sono già piene di dolci e biscotti.

Le strade della città vengono arricchite dal luccichio colorato delle luminarie (l’archi) di diversi tipi (dai semplici fili di luce, alle strutture in legno a forma di stelle, cerchi, fiori, ghirigori vari), da angioletti bianchi e dorati (che ricordano le sculture del Serpotta), nell’attesa di vedere il grande albero di Natale che verrà allestito di fronte al Teatro Politeama (usanza più moderna), o di vedere le scalinate del Teatro Massimo coperte da un tappeto rosso di “stelle di natale”, e le palme illuminate da tante lucine dorate che la notte regalano un’atmosfera suggestiva.



Quest’ anno probabilmente si risentirà del clima di austerità dovuta alla recessione, si rinuncerà sicuramente a tanto, ma forse frenare un eccessivo consumismo è anche positivo (certo se questo fosse una possibilità per rilanciare altri valori, come la riscopertà di sé e degli altri, del valore della diversità, della pace, di qualcosa di più profondo e non l’effimero che ha riempito le televisioni e le teste della gente in questi ultimi anni). Spero che la paura del futuro (alimentata ogni giorno dai mass media) che si trasforma facilmente in individualismo, razzismo, chiusura, non prenda troppo il sopravvento e che anzi prevalga una “non qualunquista” voglia di vivere, di amare e quindi anche di ridere e perchè no... mangiare.
E’ anche per questo che quest’anno in particolare, rivaluto la voglia di festeggiare e di divertirsi anche con poco, capacità degli esseri umani che nel tempo si è un po’ persa. E la cucina povera (ma nello stesso tempo allegra) palermitana aiuta a sollevare l’umore senza gravare troppo sulle tasche.

Il mese di Dicembre si apre (il giorno 7 e 8) con la festa dell’ Immacolata Concezione che a Palermo viene chiamata semplicemente “A Maruonna”.
Anche in questo caso l’occasione è buona per riunire a tavola le famiglie.
La sera della vigilia (7 Dicembre) è il giorno in cui “si aprono” le giocate a carte e le tombolate, che dureranno per tutto il mese e si concluderanno con l’epifania.
Ma non si gioca a pancia vuota...I piatti tipici di questa occasione sono lo “Sfincione” e soprattutto il “Baccalà fritto o chi passuli”.
Per il pranzo del giorno successivo si mangiano generalmente “Anelletti o furnu”, “Lasagne (ricce) cu’ sucu ri cutini”, carne di maiale o salsiccia col sugo. Forse per sancire l’arrivo del freddo con questi cibi più grassi.
I dolci per festeggiare “A Maruonna” sono tanti e molto stuzzicanti, le Reginelle (biscotti secchi ricoperti di sesamo), “i Mustazzuola” (dolci di miele con disegno della madonna), “Buccellatini” e “u Cucciddatu tunnu” (buccellato a forma di ciambella).
Questi ultimi sono di pasta frolla, ripieni di fichi secchi, mandorle, uva passa, conserva ecc.
Si preparano in oltre “i Sfinci” fatti in casa ( pasta molto lievitata, fritta in olio bollente e poi spolverata di zucchero) diversi dalle “Sfinci di San Giuseppe” che invece sono ripiene di ricotta e si mangiano per il giorno in cui si festeggia l’omonimo santo.

La festa che segue è Santa Lucia (il giorno 13 Dicemdre). Durante tutta la giornata “è vietato” mangiare pane e pasta, perchè la leggenda dice che si potrebbe diventare ciechi (ma durante il mese avrò più tempo per raccontare aneddoti, leggende e ricette). I palermitani non hanno proprio preso alla lettera l’idea di sacrificio o penitenza, ed hanno così inventato una serie di leccornie per consolarsi dal dover rinunciare alla pasta e soprattutto al pane....
Per colazione dovendo sostituire il pane e latte, si preparano minestre di riso col broccolo (cavolfiore) o altre verdure lesse, “Patate vugghiute” (bollite), “Allessi” (castagne bollite) o addirittura “Panelle e cazzilli” (panelle e crocchè di patate). Per il pranzo e la cena si preparano le Arancine (qui a Palermo sono chiamate al femminile), con la carne o al burro, è molto divertente la preparazione in casa che spesso coinvolge tutti i componenti della famiglia che lavorano in serie (chi condisce, chi impastella, chi impana, chi frigge etc) , “Il grattò” (sformato di patate con dentro ragù di carne e piselli), panelle e crocchè e “patati a spizzatinu” (patate in umido).
E soprattutto non può mancare il dolce, “A Cuccìa”.
La cuccia in origine era un piatto povero molto semplice, che consisteva nel grano (non macinato) bollito e condito con olio.
A Palermo però la versione originaria ha dato vita a tante rielaborazioni, dove fa da regina quella con crema di ricotta, canditi e scaglie di cioccolata. Ci sono altri tipi di cuccìa con crema di cioccolata, crema gialla etc, ma la più amata rimane sempre quella tradizionale con ricotta.


Il Natale è anche a Palermo la festa più importante dell’anno.
Le famiglie hanno già decorato l’albero (ci sono due scuole di pensiero, la prima secondo cui l’albero si fa l’8 Dicembre “Pa’ Maruonna”, la seconda il 13 per Santa Lucia ), c’è anche chi fa il più tradizionale presepe.
I regali sono già pronti ed anche il cibo (che si comincia a preparare il giorno prima).
La mattina del Natale (o la notte della vigilia) generalmente si va a Messa (anche chi non ci va durante tutto l’anno, i “poco praticanti” infatti approfittano di questa occasione soprattutto per sfoderare le pellicce che a Palermo possono essere usate veramente per pochi giorni l’anno, vista la mancanza di freddo).


E poi tornando a casa si da il via alle danze (si intende sempre quelle gastronomiche).
La scelta è vasta, si può variare dalla carne al pesce, e nel tempo è stata “contaminata” da piatti più moderni e di altre provenienze, ma qui mi atterrò strettamente alla cucina tradizionale. Cominciando dagli antipasti: “ U’Piattinu” con tutti i tipi di formaggi e salumi (pizzami), “L’Arenga salata” con arancia cipolla olio e pepe, “U ficatu ri sette cannuola” (zucca rossa in agrodolce), “L’ Alivi bianchi cu’ l’accia (sedano)”, “verdure ‘a pastetta” (broccoli, carciofi, cardi etc, in pastella e fritti), “Sardi a beccaficu” etc.
Come primi, “A pasta o furnu”, “A pasta chi vrocculi arriminata”.
Come secondi “Brociolone” o “Farsu magru” (rollò di carne imbottito con pangrattato, uva passa pinoli, salumi, uova sode), “Pisci spada ‘a ghiotta”.
E tanti dolci tra cui “Cannoli”, “Turruni”, “Cucciddatu”, “Petra fennula”, pasticcini vari tra cui “Sciù” (bignè con ricotta), “Cassatine”, “Cannulicchi”. Per passare il tempo tra una tombola e l’altra si gustano i ficu sicchi, passuluna (fichi bolliti) e u scacciu (semi di zucca, ceci, noccioline).

Le stesse pietanze sono preparate anche per il giorno successivo, Santo Stefano e per il pranzo di Capodanno.
La notte di fine anno qualcuno va a festeggiare fuori casa (secondo il detto “Natale con i tuoi, capodanno con chi vuoi”) ai veglioni o alle feste di piazza, ma altri rimangono in casa per le brindate in famiglia.
Si può fare poi una passeggiata al Politeama, dove c’è il concerto di Capodanno e tanta gente che si diverte, stando un po’ attenti ai “botti” e “mortaretti” e ricordandosi sempre che è bello divertirsi e ridere con gli amici mantenendo sempre il buon senso.

giovedì 20 novembre 2008

A fuitina

La fuitina è un fenomeno di costume tipico della Sicilia e di Palermo.
Questo fenomeno avveniva soprattutto nel passato, ma in altre forme e con differenti modalità avviene ancora oggi (anche se circoscritto nei quartieri più popolari, che comunque raccolgono una grossa fetta del popolo palermitano).

La fuitina potrebbe somigliare a quella che in altri luoghi viene detta fuga d’amore, due innamorati contrastati dalle famiglie che scappano per coronare il loro amore.

In realtà il fenomeno di cui parliamo è un po’ più controverso e complesso.
Il termine fuitina riassume differenti comportamenti.
La fuga d’amore è uno di questi, ma non ne rappresenta al pieno la sua la peculiarità.
L’elemento scatenante principale è il fattore economico e sociale.

Capitava infatti che fuggissero coppie “fidanzate in casa” da anni, col benestare delle famiglie.
Se mancava il contrasto cosa giustificava la fuga?
Spesso queste coppie erano costrette ad aspettare tanti anni prima di potersi sposare per diversi motivi.

Ad esempio era possibile che si attendessero i matrimoni di altri fratelli o sorelle maggiori (era d’uso che ci fosse una sorta di graduatoria per sposarsi. Prima le donne, dopo i fratelli maschi, poi secondo l’età).
Se si aveva la “sfortuna” di avere una sorella maggiore “zitella” l’attesa poteva protrarsi per molto tempo.

Altri motivi erano legati al fattore economico. Il matrimonio costava (e costa tutt’oggi) molto, sia il giorno in sé (ed ancora oggi molte famiglie si indebitano pur di fare una bella figura), ma anche tutto quello che comportava la stipula di questo contratto. Le famiglie si accordavano sulla dote (“a duota”), di cui la sposina doveva essere in possesso (in genere biancheria ricamata), o la casa e il mobilio che spesso toccavano al futuro sposo (oltre che uno stipendio fisso).

Spesso serviva del tempo per mettere da parte il denaro necessario e se si era in un momento di ristrettezze (se per esempio la famiglia stava già spendendo molti soldi per organizzare il matrimonio di un altro congiunto) il matrimonio veniva posticipato.

Così avveniva “il bello”, il colpo di scena, cioè quello che rende peculiare la fuitina: la complicità delle stesse famiglie.
Nella maggior parte dei casi , complice dei fuggiaschi (“fuiuti”) era una sola delle due famiglie coinvolte, quella in maggiori difficoltà, ma capitavano addirittura casi in cui entrambe le famiglie erano complici e un po’ come in una farsa teatrale, ognuno recitava la propria parte.

Spesso le famiglie si rendevano conto delle difficoltà dei futuri sposi (ad esempio la madre della ragazza temeva l’avanzare dell’età della figlia) o avevano un reale problema economico, ma se avessero optato per un matrimonio meno fastoso e più frettoloso, “la gente”,avrebbe pensato male (che erano poveri, indebitati etc, oppure potevano dubitare dell’”integrità” morale della sposina che “magari poteva essere già incinta”, vista la rapidità delle nozze). Tutto ciò avrebbe colpito l’orgoglio delle famiglie, che per salvarsi rispetto all’occhio e alla bocca di popolo, preferivano sfruttare l’opportunità che la fuitina dava per risparmiare, per affrettare i tempi, per salvare l’onore delle famiglie (prima disonorato e poi riparato).

C’erano altri casi per cui gli innamorati non potevano sposarsi o almeno “fidanzarsi in casa”. La minore età, qualche contrasto tra famiglie, oppure l’impossibilità a frequentarsi perché per qualche caso della sorte, mancavano madri o zie che sorvegliassero i due giovani durante il fidanzamento.
In questi ed altri casi si organizzava la fuga, ma quasi sempre con la complicità di qualche parente.

La fuitina si svolgeva secondo le medesime modalità.
I due si organizzavano tramite bigliettini consegnati dai complici (fortunatamente niente a che vedere con i “pizzini” più noti oggi…), si davano appuntamento e scappavano (spesso venivano ospitati da una nonna , una zia o una delle due famiglie), “consumavano il matrimonio” (pena il possibile fallimento di tutto).
Seguiva la telefonata del fidanzato alla famiglia di lei (“buongiorno mi fuivu a so figghia”) con relativa arrabbiatura del padre, “sdillinchio”(attacco finto isterico) della madre (che spesso sapeva tutto), riunione di famiglia. Lo sposino avvisava anche la propria famiglia e anche lì insulti vari (ma di minore intensità).
Poi un parente si sarebbe “immischiato” per trovare un accordo e far riappacificare tutti.
Quindi avveniva l’incontro, dove volava qualche simbolico ceffone, e poi tutti si abbracciavano piangendo, mangiavano pasticcini e decidevano che i due si sarebbero dovuti sposare in fretta (ancora meglio se c’era un bebè in arrivo).
Così la faccia era salvata e il portafoglio pure.

La ragazza fuiuta doveva sposarsi subito, perché in caso contrario, se fosse accaduto un problema e il matrimonio non fosse andato in porto, sarebbe stata disonorata per sempre e nessuno l’avrebbe mai più sposata.
Il ragazzo capace di compiere tale gesto era guardato con rispetto da tutti perché faceva un atto eclatante, e soprattutto voleva riparare al più presto “assumendosi le sue responsabilità” dimostrando di “curarsi dell’onore della fidanzata e delle famiglie”.

Certo parliamo di altri tempi in cui a scegliere per il corpo e per la vita di una donna erano tutti tranne che la donna stessa. Oggi anche qui fortunatamente qualcosa è cambiato (ma permangono ancora forti strascichi tipici del patriarcato).

Nel corso del tempo vennero definiti col termine fuitina altri i fenomeni un po’ diversi.
Per una diversa libertà di costumi dovuta ai mutamenti sociali che inevitabilmente toccarono anche la Sicilia (le ragazze uscivano di casa per andare a scuola o a lavorare), i giovani innamorati avevano più facilità ad incontrarsi da soli e poteva capitava di incorrere in una gravidanza imprevista. In questi casi, la coppia confessava e il maschio “riparava” sposandosi. Così le famiglie un po’ per giustificarsi dicevano “sinni fuieru” (sono fuggiti), ma questo in realtà è un fenomeno più moderno che nulla ha a che vedere con la rocambolesca, eclatante, concepita come un gesto quasi “cavalleresco” fuitina originale.

Oggi il fenomeno fuitina è inesistente nei ceti medio-alti, per un cambiamento socioculturale. I giovani hanno modo di incontrarsi, fidanzarsi, vivere insieme e se devono aspettare è solo per trovare un lavoro non precario. Ma soprattutto per le donne (per cui il matrimonio rappresentava nel passato l’unica possibilità di libertà rispetto alla vita prima del matrimonio) oggi è possibile svolgere una vita sociale con maggiore libertà (lavorare, studiare, viaggiare, uscire da sola o con un ragazzo etc) anche da non sposate, ed avere una diversa consapevolezza di sé.
Le donne hanno più libertà di scelta e il loro onore non è più legato a certi tipi di concetti “tribali”.

Una mentalità tradizionalista, malgrado tutti questi cambiamenti e una libertà apparente è comunque ancora esistente e diffusa in ogni ceto sociale, e a maggior ragione si radicalizza negli ambienti più arretrati.

In alcuni quartieri popolari, di fatto si usano le stesse modalità di quarant’anni fa, anche se le ragazze sembrano più libere e si vestono alla moda.
Può capitare che le ragazze a tredici anni siano già donne di casa perfette e soprattutto senza prospettive di emancipazione personale, ed hanno ancora come unico scopo di rivalsa sociale il matrimonio. Decidono quindi di affrettare i tempi, perché piuttosto che occuparsi della casa o dei figli dei propri genitori, possono curarsi della propria (tanto prima o poi sempre quello sarà il proprio destino). E così ancora si ricorre alla tipica fuitina e a tutta la farsa che ne consegue.

lunedì 17 novembre 2008

Il pane palermitano

For the English translation go on I love Palermo

Il pane per i palermitani è il protagonista fondamentale della tavola. E’ un cibo così sacro da essere anche stata assegnata e intitolata una chiesa ai fornai (San Isidoro Agricola “dei Fornai”).

E’ quasi impensabile mangiare qualcosa senza accompagnarla con il pane, tant’è vero che i condimenti vengono chiamati companatico, qualcosa che si aggiunge al pane, che viene prima di tutto. Ancora oggi è abitudine che alcune mamme (vedi la mia) quando la famiglia è a tavola a rassicurino i commensali dicendo : “il pane c’e”.

Negli anni nemmeno le confezioni di pane affettato che si trovano nei supermercati sono riuscite a sostituire il pane, sono comode ma nulla hanno a che vedere con il pane venduto dai panifici della città.

A Palermo il pane si mangia fresco (anzi direi caldo). E’ possibile vedere davanti ai forni, proprio all’ora del pranzo o della cena, dei capannelli di persone che aspettano, l’osservatore più attento noterà che i banconi del fornaio sono ancora pieni.
Cosa aspettano allora questi palermitani? L’ultima sfornata. Vogliono il pane caldo da far bruciare le mani. Ancor prima di arrivare a casa, di nascosto (perché non è buona educazione, ma lo fanno tutti), spezzeranno il cozzitello (l’estremità) e lo mangeranno bruciandosi la lingua ma con tanta soddisfazione.

Cosa si fa col pane che rimane? Nessuno lo butterebbe mai, sarebbe peccato mortale. Gran parte verrà grattuggiato per trasformarlo in pangrattato con cui condire o impanare (involtini di carne, pesce spada, sarde, melanzane, oppure si mischia al manzo tritato per farne polpette, o si usa per le frittate, o mischiato al cacio cavallo e al prezzemolo, per impanare la carne), il pangrattato si può anche “atturrare” abbrustolire, per condire tanti piatti di pasta (con broccoli, sarde, acciughe etc). Il pane raffermo viene affettato per farne bruschette (con pomodoro, olio e aglio), oppure la mollica viene bagnata nell’acqua o nel latte e se ne fanno polpette da friggere (per la serie non si butta proprio niente!). Il pangrattato si può conservare in frigo mischiato a foglie di alloro.

L’abitudine di mangiare il pane appena sfornato, forse nasce anche dal tipo di impasto che si usa a Palermo. Infatti questa prelibatezza croccante fuori e morbida dentro, dalle svariate forme, decorata dal cimino (sesamo), dopo qualche ora diventa gommosa e quasi immangiabile, a differenza del così detto pane di paese che più passa il tempo più diventa buono.

A Palermo il pane si trova a tutte le ore del giorno ed anche la domenica quando la maggior parte dei forni sono chiusi. Nessun problema! La domenica o nei giorni festivi, ad ogni angolo di strada ci sono i furgoncini bianchi che vendono filoni di pane di farina rimacinata provenienti da Monreale o dalla Molara, un buon diversivo (ottimi con la nutella!).

I palermitani rinunciano al pane solo un giorno in tutto l’anno, per Santa Lucia, pena il diventare ciechi (ma questa storia la racconterò il mese prossimo), comunque quel giorno ci “consoliamo” con arancine, gattò di patate, cuccia con ricotta, e la nostra vista è pure garantita!

Un tipo di pane particolare (pagnotte chiamate “cricchi”, spaccate al centro da un taglio a croce, aromatizzate con i semi di finocchietto selvatico) è quello che si fa per il giorno di San Giuseppe, portato dai fornai nelle chiese, fatto benedire e offerto ai parrocchiani.

Nei forni non si vende solo pane, ma anche pizza a taglio, sfincione,

pane con olive, dolci,
treccine (brioches intrecciate e ricoperte di zucchero) e u pani chi passuli anche detto millefoglie (brioche condite con uva passa e ricoperte di zucchero).

Il pane in più è elemento fondamentale per il famoso panino con panelle e con la milza (in seguito le ricette…) o per farlo cunsato.

Dopo aver detto tutto questo è chiaro perché a Palermo per definire una persona buona si usa dire “E’ un pezzu ri pani”.

E ora le forme più tipiche:
fino a poco tempo fa il pane si vendeva non a peso (secondo normative nazionali), ma a formato, adesso anche qui è entrata in vigore la legge!

PISTULUNI: pane di forma allungata, economico.
MAFALDA e MAFALDINA: pane di farina bianca intrecciato
TORCIGLIATO FORTE O A BIRRA: pane di farina bianca attorcigliato. Il primo ben cotto il secondo più morbido.
SIGNORINA : grosso grissino meno croccante.
PARIGINO:simile allo sfilatino.
PIZZIATO: parigino con la crosta superiore più croccante.
VASTIDDUNI: pagnotta.
SCALETTA: simile alla mafalda.(formato piccolo scalettina).
TOSCANINO: come il parigino più sottile.
SEMPREFRESCHI: di forma ovale e morbido
BOCCONCINI: piccoli semprefreschi

domenica 16 novembre 2008

Oggi è San Martino dei poveri

Ed ecco finalmente i buonissimi biscotti "rococò" con zuccata all'interno e glassa di zucchero e cioccolattini all'esterno.

E un bel biccherino di moscato dove inzuppare i biscotti tricotti.

Una filastrocca legata a San Martino:

Manu modda, manu modda, u' Signuri ti la 'ncodda

Ti la 'ncodda pani e vinu, San Martinu, San Martinu.

venerdì 14 novembre 2008

La mia città vista con ironia: il traffico



“Palermo è bella, ma è conosciuta agli occhi del mondo per delle terribili piaghe.
La prima è l’Etna che quando fa capricci distrugge paesi e villaggi, ma è una bellezza naturale.
Poi c’è una seconda piaga che nessuno riesce a risolvere, è la siccità, da queste parti la terra d’estate brucia è “sicca”, ma è la natura, e non ci possiamo fare niente!
Ma dove possiamo fare e non facciamo, perché non è la natura, ma in buona sostanza è l’uomo, è nella terza piaga, che diffama la Sicilia agli occhi del mondo…
E’ il traffico. Ci sono troppe macchine, è un traffico vorticoso, tentacolare che impedisce di vivere e fa nemiche famiglie contro altre famiglie…”
Pressappoco così all’ingenuo Dante (in “Jhonny Stecchino” di Benigni) venivano presentate le tre piaghe della Sicilia, e soprattutto, la più terribile, il TRRRAFFICO…

Ironica e indimenticabile scena…

Ma il traffico palermitano rimane comunque una vera piaga!!!

Tutti i nostri ospiti che hanno la necessità o forse la follia di arrivare in auto ne sanno qualcosa!
Quello che colpisce di più è la disinvoltura con cui non si seguono le regole stradali, poi c’è la questione “come attraversare la strada?”, infine l’uso del clacson…

I segnali stradali per i palermitani, non esistono. Sono degli elementi decorativi utili ad abbellire le strade, che in caso contrario, rimarrebbero soltanto adornate dalle buche o dai rattoppi, perché a Palermo quando si vuole coprire un buco, si risolve il problema come le nonne facevano trent’anni fa, con i pantaloncini strappati dei propri nipotini, con una bella toppa.
Ma in realtà questo è un metodo usato per mantenere sveglio l’autista, che grazie al continuo saltellare, non rischierà mai di addormentarsi (e noi vittimisti che ci lamentiamo, non sappiamo quanto dovremmo essere grati all’amministrazione comunale che si prodiga per evitare gli incidenti).

C’è un motivo per cui i palermitani non considerano i segnali stradali (resiste ancora il semaforo), perché sono convinti che questi rallentano il traffico. Così per divincolarsi, entrano in traverse e traversine senza curarsi delle precedenze, corrono, si “infilano” fra due auto approfittando di ogni minimo spazio, etc.
Questo avviene perché gli automobilisti palermitani non hanno bisogno di regole, perché sono convinti di essere i più bravi piloti dell’intero pianeta, di essere i più svegli, i più furbi. A creare il traffico sono i paesani, i nordici, o al massimo le donne. A Questi viene continuamente urlato l’appellativo di “‘ntamato”, termine intraducibile che significa imbranato.

Spesso si dice: “un palermitano può guidare in tutto il mondo”, peccato che dopo cinque minuti gli tolgono la patente!

Altro problema, attraversare la strada, tutta questione di psicologia…
Prima cosa, non fidarsi mai delle strisce pedonali, anche quelle sono una decorazione. Armarsi di santa pazienza (ci si può portare un giornale), si rischia di stare molto tempo a salire e scendere dal marciapiede, ma è un po’ come fare step, quindi fa digerire un ottimo “panino ca meusa”.
Poi c’è un gioco di sguardi, si deve guardare negli occhi l’automobilista, in quella frazione di secondi gli si deve rammentare che se ti uccide dovrà “pagarti per nuovo”. Infine mai dimostrare troppa sicurezza, perché l’automobilista per farti passare, non si ferma, al massimo rallenta, quindi se per caso ti suona il cellulare, se un’ amico ti saluta, se inciampi in una buca, sei spacciato. Bisogna darsi un’aria un po’ imbranata, magari fingere di zoppicare, così l’automobilista sarà costretto a fermarsi, sempre per la paura di doverti “pagare per buono”, magari ti guarderà con odio o ti riempirà di insulti, ma almeno rimarrai vivo.
Ma non è finità, meglio restare all’erta perché un secondo automobilista, irritato dalla troppa attesa potrà azzardare un sorpasso e prenderti in pieno mentre soddisfatto pensavi di avercela ormai fatta!

Infine a colpire (i timpani) del povero turista c’è il clacson, è lo strumento musicale più suonato dai palermitani, dalla mattina alla sera.
Serve a smaltire il traffico, a farsi spazio, a sollecitare gli altri automobilisti, i pedoni o chiunque sia d’ostacolo alla propria fretta.
Mi domando ma qualcuno a Palermo lavora? Hanno tutti fretta, ma le strade sono sempre piene di auto, forse sono tutti rappresentanti!

Il clacson viene usato soprattutto al semaforo. Non appena scatta il verde, con una rapidità sorprendente, quasi che un nervo collegasse direttamente l’occhio alla mano, tutti suonano il clacson per sollecitare l’autista primo della fila a scattare!
E’ quasi un miracolo, l’azione più rapida che un essere umano possa fare!

Poi ci sarebbe la questione del parcheggio, ma quella è un’altra storia…

giovedì 13 novembre 2008

Premio: Il criceto Goloso

Ho ricevuto dalla mia carissima amica Elena della Montagna incantata (ci conosciamo da circa 30 anni... io avevo soli due anni e lei quattro!!!) il mio Primo Premio e sono felicissima e onorata!

Con questa occasione volevo ringraziarti anche per il tuo continuo incoraggiamento e per i consigli riguardanti il blog.

Complimenti per la tua bellissima Montagna incantata, per i tanti premi che prenderai e soprattutto per la tua migliore creazione, il piccolo Davide !!!

Evelin

Ma ecco il premio: Il criceto goloso

REGOLAMENTO:
Il premio "Criceto Goloso" è un riconoscimento di golosità e ghiottoneria per cui va assegnato a tutti quei blogs, le cui foto e i cui contenuti trasmettono al meglio questo messaggio.
Chi riceve il premio dovrà a sua volta nominare almeno altri 5 blogs spiegando il motivo per cui si assegna il premio ed esibire il logo creato da Laura .

E questi sono i blog che premio:
La terra dei violini: per i suoi piatti tipici di Cremona e le sue ricette semplici ma gustosissime
Gloricetta: per il maiale in agrodolce e il gelo di mellone (che io adoro)
Mediterraneo in cucina: per tutti i suoi piatti meravigliosi e il mix di tradizione e creatività
La cucina di Cristina: per le sue ricette romene che mi piacciono tantissimo
Over a tuscan Stove: per aver condiviso bei momenti e per il suo amore per la cucina
Wine in Sicily: perchè profuma del buon vino siciliano

mercoledì 12 novembre 2008

Ghiaccio, bevande, zammù nella Palermo anni ‘50

Questo post è stato scritto da mia madre. Emilia Merenda


Chi è nato come me, dopo la seconda guerra mondiale e ha vissuto i primi anni dell’infanzia intorno al 1950, ricorderà certamente, quando si acquistava il ghiaccio.

L’uomo del ghiaccio ( u’ jaccialuoru ) passava per le strade con il suo carretto trainato dal cavallo, reclamizzando ad alta voce la sua merce (abbanniava jacciu, jacciu ). I bambini accorrevano e mangiavano i frammenti di ghiaccio, che si staccavano dal blocco, durante il taglio con il punteruolo.

Le famiglie più benestanti avevano la “jacciera”, una specie di piccola dispensa di legno con l’interno zincato, dove riponevano i cibi avanzati e l’acqua, per mantenerli al fresco. Quest’operazione si eseguiva in estate, con lo scopo principale, di mantenere l’acqua fresca per tutta la giornata. Non ci si poteva permettere di comprare grandi scorte di cibo, ciò che si acquistava era solo per l’uso giornaliero e chi non aveva la jacciera, metteva il pezzo di ghiaccio dentro una bagnarola di zinco, aggiungeva le bottiglie o qualcosa avanzata, ricopriva il tutto con una vecchia coperta e il risultato ottenuto, era lo stesso della ghiacciera.

Il ghiaccio lo acquistava l’acquivendolo (l’acqualoru ) per tenere al fresco le bibite. La sua bottega era un chioschetto e oltre a vendere l’acqua fresca con l’anice ( zammù ) in singoli bicchieri, preparava pure altri tipi di bevande: bibite d'amarena, menta, tamarindo e orzata, oppure vendeva gassose (azzusi) al limone o al caffè. Quando l’acqualoru metteva u’ zammù nel bicchiere, lo faceva in maniera veloce per evitare lo spreco di quel liquido “prezioso”, ma quando si comportava in maniera troppo parsimoniosa, “si rifardiava”, mio nonno molto ironicamente gli diceva: “Miih, c’abbuccò ‘a manu!” ( ha perso il controllo).

foto di Jan-Luc Moreau

Molti consumavano sul posto, qualcuno portava le bevande a casa e altri, chiamavano l’acqualoru dal proprio balcone e dopo avere abbassato il paniere, ( u’ panaru) lo ritiravano con la bottiglia piena d’acqua fresca o altro. In quel chioschetto c’erano diverse bottiglie multicolori che contenevano l’acqua di selz ( u’ sifuni ) e servivano per preparare le bibite frizzanti. Queste bottiglie si potevano “noleggiare” e dopo l’uso, si restituivano al commerciante.

C’era un metodo più economico per preparare altre bevande succulente: le bustine. Dentro la confezione di dette “ bustine” c’era tutto l’occorrente: una di polvere colore arancione, una fialetta di essenza d’arancia e una bustina di acido tartarico, che serviva a rendere l’acqua frizzante. Tutti questi elementi, seguendo la numerazione indicata, s’introducevano in una bottiglia a tappo ermetico (ca’ molla ), si agitava e dopo avere atteso alcuni minuti, si poteva bere il contenuto: una vera goduria. Questo compito richiedeva mano ferma ed esperta e generalmente veniva affidato al capo famiglia e a casa mia, toccava a volte al nonno o al papà. L’apertura del tappo a molla, era il momento più complicato: se veniva effettuato in anticipo, si rischiava l’uscita improvvisa dell’aranciata, che si sarebbe riversata sulla tovaglia, lasciando i commensali delusi. Ma se “l’operazione “ era eseguita nella giusta maniera, all’apertura del tappo, c’era un tripudio di risate.

Una sera mio cugino, ch’era il più grande dei nipoti, dopo molta insistenza, volle preparare l’aranciata. La sua mano era inesperta e quando aprì il tappo, dalla bottiglia venne fuori all’improvviso, un enorme fiotto di liquido arancione che andò a bagnare, perfino la parete di fronte.

Oltre al chiosco dell’acquaiolo, c’erano botteghe ( u’ vinaru o a’ tavierna ) che vendevano il vino “sfusu” (al dettaglio). Ogni acquirente portava con se la propria bottiglia e comprava: vino, marsala, vermouth, moscato e aceto. Alcuni uomini durante l’attesa, sorseggiavano un “bicchierino” e mangiavano uova sode. Quando si avvicinavano le feste oppure si attendeva la nascita di un bambino, si preparava in famiglia “u’ rosolio”. Erano dei liquori che si preparavano con l’essenza preferita, l’alcool e lo zucchero. I più richiesti erano: il mandarino, millefiori, caffè, menta e altri


In alcune zone di Palermo, c’è ancora qualche chiosco d'acqualoru, ma nel tempo si è rinnovato ed oltre alle bibite “classiche”, adeguandosi ai tempi moderni, ha aggiunto lattine e bottiglie di svariati tipi di bevande. Ma per quelli della mia età, rimane sempre il ricordo di quel lungo beccuccio, della bottiglia di zammù che, introducendosi nel bicchiere colmo d’acqua, provocava quella “miracolosa” colorazione biancastra, regalando al liquido un gusto meraviglioso. Nessuna bibita moderna, potrà regalarmi il fascino di quel semplice bicchiere, d’acqua e anice.
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