martedì 17 marzo 2009

San Giuseppe e a “pasta chi sardi”



San Giuseppe è considerato il protettore dei poveri e dei bisognosi. Tradizionalmente in Sicilia, per il 19 Marzo, si allestivano nelle case dei banchetti ai quali erano invitati i poveri, che venivano serviti direttamente dai padroni di casa.
Questa tradizione a Palermo si è diluita, ma ancora oggi, per la festa di San Giuseppe, in alcune piazze della città, vengono imbandite delle tavolate per ospitare i senza tetto.

Per un giorno queste persone vengono rifocillate e allietate con spettacoli di musica (a Piazza San Francesco di Paola ogni anno c’è il banchetto e ci sono i cantanti neomelodici dotati di pianola che suonano la loro musica), è un bel momento perchè si vedono sguardi allegri e alle volte anche sorpresi, certo che però in una situazione di grande difficoltà, disoccupazione, mancanza di case e impoverimento, appare (non certo da parte di chi si occupa ogni giorno di questi problemi) come un tentativo un pò limitato di “ingraziarsi” il santo e di lavarsi la coscienza. Poi dal giorno dopo i poveri, ormai destinati ad aumentare, riprendono a dormire sulle panchine al freddo e nell’indifferenza. Chissà che ne pensa il santo protettore, padre adottivo di Gesù!

Un altra forma di carità era la distribuzione di un particolare pane, tagliato a croce in superficie ed aromatizzato da semi di finocchio selvatico. Queste pagnottelle si chiamano i “Cricchi di San Giuseppe”. Ancora oggi sono prodotte da alcuni fornai della città e portate in Chiesa, dove, dopo essere state benedette, vengono offerte a tutti i parrocchiani.

Un’ altra importante tradizione della festa di San Giuseppe è quella delle “vampe”, il cui significato era quello di togliere il freddo ai bisognosi, oltre che di glorificare il santo. La sera della vigilia, tra le vie della città, ancora oggi vengono accatastate casse di legno, tavole e roba vecchia a cui viene dato fuoco, tra le grida di grandi e bambini che urlano in coro “Evviva S. Giuseppi”. Questo rito molto suggestivo e un tantino pericoloso (ogni anno i vigili del fuoco hanno un bel da fare durante questa nottata) ha in effetti origini precristiane, legate al culto del sole e ai festeggiamenti dell’equinozio di primavera e dell’arrivo di una stagione più propizia.

Per la festa di San Giuseppe il piatto principale della giornata è “a pasta chi sardi”, uno dei piatti palermitani più originali, che unisce degli elementi molto diversi tra loro, ma il cui accostamento è delizioso e rappresenta perfettamente l’armonia tra agro e dolce tipico della cucina siciliana di origine araba. C’è il pesce azzurro dei nostri mari, c’è la frutta secca (uva sultanina e i pinoli), c’è il gusto particolare del finocchietto selvatico e l’aroma e il colore giallo intenso di una spezia tanto preziosa che è lo zafferano, tutto unito alla pasta che deve essere esclusivamente il bucatino, che deve saltare sul piatto, che è un pò difficile da arrotolare nella forchetta e che soprattutto deve fare lo “scruscio” (rumore) quando il palermitano d.o.c. lo gusta con passione!

foto Judy Witts



L’origine di questo piatto è araba, la leggenda racconta che ad inventarlo sia stato il cuoco di un generale arabo che sbarcato in Sicilia si trovò in situazioni precarie. Per sfamare la truppa, il cuoco lungimirante, pensò di sfruttare ciò che la natura gli offriva, e inventò un piatto che nei secoli fu arricchito fino ad arrivare alla ricetta tradizionale. Fra l’altro già sia i Romani che i Greci, arricchivano i loro piatti con il finocchio selvatico. E’ interessante anche l’uso dei pinoli (molto presenti nella cucina palermitana), che avendo delle qualità antisettiche, per quella che era una cucina povera, dove era difficile trovare pesce e carne fresca, aveva lo scopo di evitare delle probabili intossicazioni.

Per questa occasione pubblicherò una poesia di mia madre Emilia Merenda su questo piatto così originale. Questa poesia è già stata pubblicata tempo fa dalla mia cara amica Elena della Montagna incantata, che oltre alla poesia ha pubblicato anche la ricetta della pasta con le sarde.. Invito tutti quelli che volessero cimentarsi nel preparare questo piatto a visitare il suo blog e a seguire le sue indicazioni da palermitana d.o.c.


A PASTA CHI SARDI
Finuccheddu di muntagna crisciutu ‘n’natura
e poi ci coci la pasta ni’ l’acqua di cuttura
e pi’ li balatara cchiù fini
hannu a essiri sulu maccarruncini.
Passulina e pignoli e ‘na cipudda ‘ngranciata
anticchia ‘i zafaranu e ‘na sarda salata,
l’ogghiu sempri ginirusu
arriminari spissu senza essiri lagnusu.
Poi ‘na manata di sardi frischi e argintati
e dintra la conza vannu ‘mmiscati,
senza spini e allinguati
vasinnò si pò moriri affucati.
La pasta avi ‘a ristari ‘ngridda,
ca’ mentri la manci sata comu n’ancidda
ca’ sulu a talialla è un veru priu
e poi a mancialla iu m’arricriu.
Tu, nun po’ capiri si nun l’ha’ tastatu mai,
ma si la manci, ti fa scurdari i guai.

LA PASTA CON LE SARDE

Finocchietto di montagna cresciuto in natura
e poi ci cuoci la pasta nell’acqua di cottura
e per i palati più delicati
devono essere solo maccheroncini.
Uva passa e pinoli e una cipolla rosolata,
un po’ di zafferano e un’acciuga salata,
l’olio sempre generoso
mescolare spesso senza essere inoperoso.
Poi un manciata di sarde fresche e argentate
e dentro il condimento vanno unite,
senza spine e diliscate
altrimenti si può morire affogati.
La pasta deve rimanere al dente,
che mentre la mangi salta come un’anguilla
e solo a guardarla è un vero piacere
e poi a mangiarla è una soddisfazione.
Tu, non puoi capire se non l’hai assaggiata mai,
ma se la mangi, ti fa scordare i guai.

domenica 15 marzo 2009

Le sfinci di San Giuseppe

Il 19 Marzo è la festa di San Giuseppe.

E’ una giornata che a Palermo, viene festeggiata con sfoggio di gustose pietanze.

Per il pranzo si prepara la famosissima pasta con le sarde, arricchita dal gustoso "finocchiello di montagna", che proprio in questo periodo ricopre con il suo verde intenso le montagne che circondano la città (devo dire che andarlo a raccogliere personalmente, a San Martino delle Scale, a Monte Pellegrino o intorno Baida, è anche un’esperienza molto piacevole, ma per chi ha poco tempo, si trova in abondanza nei mercati della città).
Si mangiano i carciofi ammuttunati, ma soprattutto si può gustare quello che in assoluto è il mio dolce preferito: La sfincia di San Giuseppe.



E’ un dolce buonissimo che a mio parere racchiude in sé tutta l’essenza della cucina palermitana: la frittura (non per nulla i palermitani sono sempre stati definiti “pariddari” ossia esperti e amanti della frittura), la ricotta, il gusto estetico barocco dei frutti canditi, il pistacchio siciliano, e quel particolare accostamento di dolce e salato che oltre a colpire positivamente il palato, rinvigorisce anche l’animo umano con quel senso di armonia che da secoli le religioni e la filosofia hanno sempre ricercato e che la cucina ha realizzato!!!

Le origini del termine sfincia, sono latine (spongia) o greche (sfoggia), ed indicano l’accostamento di questo dolce alla spugna, proprio per la sua particolare consistenza soffice e porosa.
La sfincia di San Giuseppe potrebbe avere però derivazione araba.
Gli arabi infatti erano specializzati nella preparazione delle “sfang” , delle frittelle condite con il miele o zucchero, che probabilmente grazie alla fantasia dei pasticcieri palermitani o piuttosto delle pasticciere, perchè a sperimentarsi nei più svariati dolci furono soprattutto le suore dei vari monasteri palermitani, furono arricchite di crema di ricotta e altri ingredienti ricchi di gusto.

Per festeggiare il santo protettore dei poveri, partendo da ingredienti di origine povera, è stato inventato, grazie alla creatività e al gusto estetico, un dolce di grande valore.
Basta solo un pò di immaginazione, mischiata alla semplicità e un pizzico di sogno (e un morso ad una sfincia). Per un attimo si scordano i guai, dall’istante successivo si può ricominciare a pensare, vivere e a volte anche lottare, con un pò di forza in più!

Ricetta:

Ingredienti:

per la pasta: 500 g di farina 00, 7 uova, ½ litro di acqua, 100 g di strutto, scorza di limone, sale, 10 gr di zucchero

per la crema: 1 kg di ricotta di pecora, 300 g di zucchero, 100 g di cioccolato fondente (in scaglie)

per friggere: 500 g di strutto o olio

per decorare: pistacchi tritati frutta candita

Preparazione:

per la crema:

Unire lo zucchero alla ricotta, mescolare bene. Setacciare o frullare. Aggiungere successivamente le scaglie di cioccolato fondente.

Per le sfinci:

Far bollire per qualche minuto l’acqua con un pizzico di sale, la scorza di limone e lo zucchero. Spegnere il fuoco. Unire la farina, lo strutto e le uova (una per volta). Mescolare bene per evitare la formazione di grumi, finchè la pasta si staccherà dai bordi della pentola. Far raffreddare.

Far scaldare in una pentola profonda lo strutto o olio. Con un cucchiaio versare il composto (una cucchiaiata alla volta), far dorare le sfinci, toglierle dall’olio e metterle in un vassoio con carta assorbente.
Farcire le sfinci con la crema, sia all’interno che sulla parte superiore. Guarnire con frutta candita, granella di pistacchio e zucchero a velo.

Chi si trova a Palermo, il 19 Marzo e non solo, potà gustre delle ottime sfinci in varie pasticcerie della città. Tra le tante, la pasticceria Amato, Scimone, Cappello, Spinnato etc...

mercoledì 11 marzo 2009

Palermo e la pioggia.

Finalmente è tornato a splendere il sole quindi ecco un post su Palermo e la pioggia!

Questo inverno è sembrato più lungo del solito, stranamente molto freddo e piovoso. I palermitani non ci sono abituati, è una vera sofferenza. Ma se il freddo si riesce a sopportare, quello che viene più difficile accettare è la pioggia.

Quando piove cambia tutto, la gente ha reazioni strane, e le ripercussioni più evidenti sono nel traffico che, se già normalmente è impressionante, quando piove si centuplica. Tutti coloro che sono costretti a uscire per motivi soprattutto di lavoro, tirano fuori la loro macchinona dal garage. Non esiste la possibilità di fare due passi a piedi o prendere l’autobus (che in effetti comporterebbe ore di attese sotto l’acqua). A nessuno qui piace stare sotto l’ombrello, le braccia si stancano, la pioggia ti bagna comunque le spalle, basta un soffio di vento e si rivolta al contrario. Se si facesse un sondaggio sono sicura che tutti lo boccerebbero.

Così si cerca di parcheggiare proprio sul luogo dove si sta andando, ma il parcheggio non c’è, e allora va bene anche in doppia o tripla fila, non importa, e poi “ cu stu malu tiempu sicuru ca vigili un ci nnè” (con questa pioggia di sicuro i vigili non girano per strada)...(boh?!).
Le strade quindi si restringono, il nervosismo cresce, ogni macchina sembra una scheggia impazzita, e poi c’è il problema dei tombini. Questi (malgrado un pò di tempo fa ci sia stato uno scandalo, perchè scoprirono che furono assunti dal comune un centinaio di raccomandati che avevano come unico compito quello di osservare i tombini della città) ogni volta che piove, si otturano e le strade si allagano, così per le auto è un ulteriore problema e i malcapitati pedoni sono costretti a inzupparsi fino alle caviglie, a saltellare da una pozzanghera all’altra e se poi ti passa una macchina davanti, la doccia è assicurata.

Poi qui la pioggia è “disgraziata!” (un pò cattivella), tutti i palermitani potranno raccontare un episodio in cui, magari in vista di un matrimonio o un evento particolare, in cui bisognava fare una bella figura, hanno lavato con cura la loro automobile, magari davanti una fontanella cittadina, dotati di shampoo, pelle di daino e bidoncino di acqua. Quando la vettura era lucidata di tutto punto, arrivava un improvviso acquazzone e l’opera d’arte svaniva in un solo colpo, anche perchè a Palermo “chiovi fagnu” (piove fango)! Quindi nei periodi di siccità ogni tanto qualcuno lava la macchina forse per invocare l’arrivo di una pioggia, ma in questo caso non arriva mai!

Ma la pioggia, calamità naturale, a Palermo provoca altri strani effetti. La gente, come traumatizzata, si rifiuta di uscire (tranne se non è costretta). Chi si mette in malattia dal lavoro, chi non lascia i figli a scuola. Si evita di incontrare amici, andare a cena fuori, un corteo di protesta, uno spettacolo e tutte quelle cose considerate “superflue”. Così se chiedi a un amico di incontrarti magari questo ti risponderà “no, non posso... piove”. Se domandi, “come faranno in Pianura Padana?”. “ Vabbè, lì sono attrezzati meglio. Ci sono abituati!”.

Questi e tanti altri gli effetti della pioggia, ma se poi spunta un raggio di sole, la giornata comincia a migliorare, tutti escono allegri da casa e anche i più “lagnusi” (pigri) ritornano a lavorare, il traffico è sempre caotico, ma questo è normale, il freddo fa meno paura se non è bagnato, soprattutto alle adolescenti che (avendo abbandonato ormai la “maglia di lana” tanto invocata dalle mamme) stanno con la schiena nuda anche a Gennaio.
Insomma si ricomincia a vivere, poi quando il caldo aumenterà tutti diranno che preferivano l’inverno “perche almeno se c’è freddo ti puoi cummugghiari (coprire), se c’è caldo che fai?”, magari si sta a casa a prendersi il freddo dei condizionatori, la gente si sente sudata, affaticata, ma sono solo parole, la verità è che proprio per quel cielo azzurro e limpido e quel caldo fastidioso ma rassicurante che si ama tanto Palermo!

sabato 7 marzo 2009

La donna a Palermo

Visto che si avvicina la festa della donna, parlerò della donna a Palermo.

Alcuni, pensando alla Sicilia, immaginano che ancora la donna sicula porti il fazzoletto in testa e l’abito scuro. Questo se non avviene in grandi città come Palermo o Catania, non avviene nemmeno nei paesi più piccoli (se non qualche anziana che mantiene le abitudini di qualche decennio fa). Le ragazze nell’abbigliamento e nei modi di fare sono molto “moderne”.

La ragazza tipica palermitana dei giorni d’oggi, porta quasi sempre la frangetta sugli occhi, le mollettine con cuoricini sui capelli, gli occhiali da sole alla moda, i giubbini corti (bianchi o neri), gli stivali ai piedi e i pantaloni a vita bassa con i fianchi e la pancetta molle in bella vista. Ci sono tantissime adolescenti (perchè qui il calo demografico non esiste) in giro soprattutto il sabato pomeriggio al politeama, che si tengono a braccetto tra loro.
Ma anche le signore di mezza età non rinunciano all’estetica e alla moda, a parte quelle che dagli anni ’80, non hanno più abbandonato i fuseaux, ma si sa, la moda va e viene...

Insomma niente più fazzoletto in testa. Le donne palermitane lavorano dentro e fuori casa, escono e guidano la macchina (magari vengono insultate con frasi del tipo “va lava i piatti”, da uomini che si vogliono illudere che sia il gentil sesso a creare il traffico palermitano).

L’apparenza emancipata (insulti a parte), nasconde bene una mentalità che ancora è essenzialmente patriarcale. Infatti questi costumi così “moderni” sono comunque il frutto di una concessione che viene fatta alle donne dai loro uomini, padri o mariti che siano. D’altra parte anche i maschi palermitani doc, che fino a qualche anno fa vietavano alle mogli di truccarsi e addirittura, ho saputo, anche di depilarsi, dovevano per forza stare al passo con i tempi e rassegnarsi di fronte le trasformazioni della realtà.
La televisione che è servita più di Garibaldi ad unire il “belpaese”, a diffondere la lingua italiana come alternativa al dialetto siciliano, è servita anche a diffondere un certo stile di vita. Ma ha realmente cambiato più profondamente la condizione della donna?

Apparenze a parte, la donna ha sempre il un suo percorso a tappe prestabilito, deve avere la “dote” di lenzuoli e batteria di pentole (non è più obbligatoria, ma per sicurezza tutte le famiglie te la cominciano a preparare già durante l’infanzia), e quindi poi deve sposarsi perchè in caso contrario non sarà single, ma zitella, che è un termine dispregiativo per indicare una ragazza “ca un sa pigghiò nuddu” (nessuno l’ha voluta sposare), è quasi un disonore per la famiglia, e tutti i parenti dietro le spalle criticano e compiangono, dicendo “ci arristò supra a panza a so patri” (è rimasta sullo stomaco di suo padre), anche se la ragazza lavora ed è indipendente.

Fino al matrimonio è quasi impossibile che una ragazza vada a vivere da sola, se “avi a niesciri di casa” (deve uscire dalla casa di famiglia) è solo per sposarsi. Sarebbe un’onta insopportabile, questo si può giustificare solo nel caso di un lavoro fuori città, ma mai per una scelta di libertà.
La ragazza in gioventù, può uscire, ma deve sempre guardarsi dalle dicerie della gente, ci vuole poco ad essere etichettata con appellativi poco gradevoli, semplicemente perchè si è cambiato fidanzato o si esce troppo spesso.

Tra le tappe fondamentali, dopo il matrimonio ci sono i figli, perchè se non li fa è sempre colpa sua che non “ci riesce”, e il marito è visto come un “poverino”.
Poi ho già detto che esiste ancora la fuitina, il matrimonio riparatore, tutte cose che a guardare l’apparenza sembrerebbero molto lontane, ma sono ancora molto presenti.
Quindi è chiaro che non bastano i jeans stretti e la frangetta ad aver reso la donna libera.

A volte qualcuno dice che in Sicilia la società era matriarcale, perchè nell’immaginario comune si ricordano quelle belle matrone (soprattutto le anziane) come fulcro della famiglia che con forza comandavano “a bacchettone” il marito, immaginato come un vecchietto magro, col viso incartapecorito dal sole, la coppola in testa e privo della facoltà di parola.
In realtà, malgrado questa possibile interpretazione, la donna amministrava tutto, ma lo faceva sempre in nome del patriarcato, trasmettendone ai figli i valori e i principi. In questo modo, il “vecchietto raggrinzito” aveva più che altro la possibilità di farsi “i fatti suoi”, tanto il lavoro duro di casa lo faceva la moglie.

La donna palermitana ha comunque in sè una bella aggressività, che nulla ha a che vedere con l’immaginario della donna sicula muta. Ci sono dei momenti particolari, in cui si trasforma diventando quasi irriconoscibile. La voce si fa incredibilmente stridula, le mani obbligatoriamente sui fianchi. Questo avviene nel caso in cui ci sia una lite condominiale o un incidente stradale.
In questi casi lo spettacolo può essere terribile ma anche divertente. Le urla sono in falsetto. Le mogli quasi sempre fomentano i mariti alla “sciarra” (lite), si strappano i capelli, si insultano, però quasi sempre, per fortuna, alla fine non succede niente, perchè i mariti, per dare soddisfazione alla propria signora, fingono di voler venire alle mani, ma continuano a chiedere alle persone vicine di essere trattenuti “tinìtimi, tinìtimi sinnò l’ammazzo” e le mogli gridano “ammazzalo! ammazzalo”, ma poi tutti si accordano e fanno pace!

Ora veniamo alla “festa” della donna. Quella che in origine doveva essere “la giornata” della donna, un momento di lotta per difendere i propri diritti, un momento per stare insieme e confrontare le proprie esperienze, è diventato negli anni una “festa” tra le peggiori, che esprime veramente quanto poco si sia cambiato negli anni e quanto ancora c’è da fare. Il meglio che si fa con questa festa di massa è riproporre i peggiori comportamenti maschili.

Io ricordo che sarà da circa quindici anni che qui a Palermo è iniziata questa tradizione. I primi anni, l’8 di marzo, si vedevano gruppetti di donne di differenti età (le mamme, le figlie, le nonne), che vestite di tutto punto andavano a mangiare in pizzeria. Qui le signore si intrattenevano per un po’, chiacchieravano tra loro e poi tornavano a casa. Poteva essere un bel momento di condivisione, se non fosse che si limitava ancora ad una concessione dei mariti, che una volta l’anno, per la verità un pò contrariati, lasciavano uscire le mogli da sole. Dal giorno dopo tutto come prima. Quel giorno gli uomini rimanevano a casa e dovevano farsi da mangiare da soli, oppure le mamme o mogli lasciavano già tutto pronto...

Dopo un pò di anni, le cose sono cambiate. Trasformandosi in una “festa” commerciale e di massa, rappresentava l’occasione per gruppi di maschi di approfittare di uscire per “abbordare” le donne in giro da sole, che quel giorno sentendosi libere, potevano cedere più facilmente alle avances... e l’emancipazione? Boh!

Ma il top si è raggiunto negli ultimi anni, ovvero con la moda degli spogliarellisti nei locali. La città è tempestata di manifesti con le foto di questi bellocci a petto nudo e abbronzato e capelli dinoccolati sulle spalle, sui manifesti svetta tristemente il titolo “Festa della donna”. Nei locali si ha così lo spettacolo del finto “uomo oggetto”, gli animatori fanno battute maschiliste a doppio senso, e le donne ridono, e mi domando perchè. Anche nella pizzeria che non può permettersi lo spogliarellista, c’è almeno un cameriere ammiccante che magari si fa fotografare abbracciato alle clienti.

Ma la festa con lo spogliarellista è la più degradante che ci sia. Io, mio malgrado, una decina di anni fa ho vissuto questa tragicomica esperienza. Era l’8 Marzo. Sapevo di andare in un pub con le mie colleghe di università, loro conoscendo le mie idee, furono vaghe e io andai convinta ancora di trovare i gruppi di nonne, zie e nipoti. La serata fu normale, come quelle in un pub, musica, bere qualcosa etc.
Ma ad un certo punto... sentii un urlo corale disumano, stridulo, a singhiozzo, sempre più forte, una sorta di risata arrabbiata, un suono interminabile da parte di tutte le ragazze presenti nel luogo che nello stesso tempo saltarono come cavallette sui tavoli e sulle panche. Mi voltai stupita e vidi spuntare su un palchetto un giovane con capelli lunghi lisciati all’indietro da tanto gel, con canottiera a rete e pantalone attillato.

Poco dopo l’immagine sparì perchè tutta quella massa di ragazze si era affollata intorno al palco, continuando ad urlare e cercare di togliergli gli abiti di dosso. Ad ogni movenza del belloccio, l’urlo si faceva più forte, io mi sentivo impietrita, ma non per la cosa in sè, che alla fine non mi sconvolge più di tanto un uomo depilato e mutandato, ma per quella reazione incredibile. L’esibizione durò poco, fortunatamente perchè l’urlo a intermittenza la accompagnò per tutto il tempo. Io vedevo ogni tanto volare un capo di abbigliamento, un petto gommoso, un braccio abbronzato. Ma l’immagine che più mi intristì, ma che se ci penso mi fa anche ridere, fu verso la fine del piccolo show.
Tra braccia di ragazze agitate, reggiseni sventolanti etc, spuntò di nuovo il finto “uomo oggetto”, col petto ormai denudato e con... udite udite...
un ramoscello di mimosa che svettava fiero dalla mutanda leopardata...
e come direbbe Peppino De Filippo “ho detto tutto”!


Come sempre i miei post, trattano delle caratteristiche più tipiche di Palermo e che colpiscono la mia attenzione, che a volte mi intristiscono e a volte mi fanno sorridere. Fortunatamente poichè l’umanità e varia, e soprattutto si tratta di una grande città, a Palermo, come in ogni luogo, c’è tutto e il contrario di tutto. Quindi ci sono anche tante persone (donne e uomini) che riescono, magari faticando un po’, a scegliere come vivere la propria vita e ritagliarsi i propri spazi di libertà e di diversità.

Potrà interessare sapere che a Palermo per l’8 Marzo ci saranno due concerti, uno alle 21.30 di Fiorella Mannoia al Teatro Politeama e l’altro alle 18.30 del pianista Giovanni Allevi al Teatro Massimo.
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